Estetica

Il “comunicare visivo” è estetico, non artistico. Come diciamo, in apertura del corso, forzando la questione, l’arte è, per così dire, sconfitta dal desiderio e dalla necessità di comunicare che hanno gli uomini, e tanto più quanto la nostra cultura procede verso la progressiva e inesorabile informatizzazione del mondo. All’arte compete, per sopravvivere, un difficilissimo impegno! Ma quest’impegno ha ancora a che fare con la bellezza, o, non, piuttosto, con un’estetica diffusa, che pervade ogni nostro corpo, ogni nostro ambiente, ogni nostro comportamento?

Marina Abramovic, Art must be beautiful. Artist must be beautiful, 1975 Marina Abramovic, Art must be beautiful. Artist must be beautiful, 1975

Marina Abramovic, Art must be beautiful. Artist must be beautiful, 1975

In questa nota video-performance, Art must be beautiful. Artist must be beautiful (1975), Marina Abramovic, dapprima sussurrando e infine urlando, dapprima spazzolandosi ed infine colpendosi il capo e il volto con una spazzola di ferro, si domanda, ci domanda, perché l’arte e l’artista debbano ancora rispondere a questa tragica, mortale, richiesta di bellezza. Abbiamo più volte sollevato la questione del rapporto tra arte ed estetica. Per sottolineare ancora quella che riteniamo essere la loro maggiore differenza, riprendiamo la questione, così come era stata “ingenuamente” sollevata da Ludwig Wittgenstein. Il motto schilleriano, Seria è la vita, allegra è l’arte, citato da Wittgenstein nei suoi Quaderni, veniva posto a conclusione dell’interrogativo se l’essenza del modo di vedere artistico sia vedere il mondo con occhio felice (Quaderni 1914 – 1916, Einaudi, 1964, pag 189). Wittgenstein indicava, in questo passaggio, una concezione dell'arte intesa, dunque, come un divertimento, nel senso proprio di una comunicazione diversiva rispetto ai grandi problemi concreti e dramma­tici della vita.
Il pensiero attuale tende invece a reinserire l'arte e la poesia all'interno di una funzione critica e analitica della realtà con­temporanea, perché il grande spettacolo simbolico dell'espressione artistica, dal cinema alla poesia, dal romanzo alla musica, possa aiu­tarci a superare la dimensione allucinante della simulazione pro­gressiva della realtà e a mettere in discussione l'eccessivo ottimi­smo tecnologico e scientifico, che si traduce in una vera e propria epidemia della novità.

Che la maniera di contrastare l’estetica diffusa, l’allegra dissipazione della vita attuale, sia quella di rovesciare completamente la “tradizionale” finalità dell’arte? Ad essa, infatti, in ogni epoca e in ogni civiltà, è stato demandato il compito di realizzare mondi altri, utopici, immaginari, fantastici e poetici; all’artista attuale, invece, viene richiesto, certamente in maniera spesso inconsapevole, di fornire, per la prima volta in senso assoluto, una sorta di arte critica, che sia capace di indicare dei principi di realtà.

Marina Abramovic, Balkan Baroque, 1997 Marina Abramovic, Balkan Baroque, 1997 Marina Abramovic, Balkan Baroque, 1997

Marina Abramovic, intitolata Balkan Baroque, 1997

Non a caso, una delle ultime e più importanti performance di Marina, presentata alla Biennale di Venezia del 1997, intitolata Balkan Baroque, consiste in uno “spettacolo intollerabile”, durante il quale l’artista, per quattro giorni, seduta al centro di una stanza, pulisce con una spazzola una montagna di ossa. Alle pareti compaiono tre videoproiezioni; al centro appare Marina stessa; ai lati, l’immagine del padre e quella della madre. Marina, nella videoripresa, che scorre incessantemente alle sue spalle, racconta il modo orribile con cui, nei Balcani, si dà la caccia ai topi, rendendo pazzo di rabbia uno di loro e facendolo diventare un serial killer nei riguardi della sua stessa specie. La metafora con la vita quotidiana di una società umana, perennemente in guerra con se stessa, è immediata. Si tratta di un’opera potente, commovente e terribile, che parla di questo nostro presente in decomposizione, senza passato e senza futuro.
Dice Marina:

il processo di autoanalisi che sempre dobbiamo fare, questa volta riguarda la coscienza della storia della Yugoslavia. Di questa storia tragica dobbiamo iniziare a pulirne le ossa! A pulire il nostro passato! A partire dall’unità minima della società, che è la famiglia. Alle tre pareti siamo presenti, io e i miei genitori, pronti a svelarci, a svelare come in Yugoslavia si usa dare la caccia ai topi. É una metafora, ma il racconto è davvero terribile, perché quella nostra usanza è enormemente crudele. E la stessa Yugoslavia è a sua volta una metafora dell’intera società umana, una società così terribile e così violenta. Una società che potremmo definire “della rabbia”. Ma non si tratta di un’opera politica; non ho mai fatto opere con questa caratteristica. Ciò che mi preme è di riuscire a trascendere il fatto specifico.

Ma perché i poeti non riescono a cambiare il mondo?

Orlan, l’artista francese celebre per la sua estetica … chirurgica, apre una questione di enorme importanza dal punto di vista sociale, rovesciando, come una pelle, il corpo intoccabile della cultura ipocrita occidentale, basata su stereotipi tragici, che condannano ad una sorta di mito della bellezza, sia l’arte sia l’uomo. Una bellezza intoccabile, salvo segrete manomissioni… L’estasi dell'estetico (dall'estetica come filosofia dell'arte all'estetica come arte dell'abbellimento corporeo), caratterizza il postmoderno, risolvendo il corpo umano in opera d'arte come farebbe per una qualsiasi altra merce. Non è più questione di buono o cattivo, di necessario o superfluo, di umano o disu­mano. La disumanità della bellezza del postmoderno di intreccia solidalmente con l'estasi dell'atrocità. Bellezza e mostruosità appaiono legati dalla necessità espositiva di tutto ciò che è mostruoso, vale a dire, di tutto ciò che merita di essere mostrato. Esteticità della bellezza avente la stessa potenza di appeal dell'atrocità; entrata in un'epoca decisamente sadomaso. La manovra filosofica messa in essere da Orlan, infatti, consiste nello sconvolgere le regole stesse della bellezza, manomettendo l’aspetto seduttivo del reale. Alterando le proprie fattezze e cambiando aspetto, Orlan si sottrae alla possibilità di essere fissata eternamente dalla rappresentazione sacralizzante dell’arte.

Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche Orlan, Immagini Fisiognomiche

Orlan, Balkan Baroque

Le azioni di Orlan (http://www.cicv.fr/creation_artistique/online/orlan/) tendono ad accentuare la componente dinamica della comunicazione, una comunicazione che è sentita sempre più come parte centrale dell’evento artistico; proprio per ciò, l’artista utilizza non solo la materialità espressiva del corpo fisico, ma tutto ciò che appartiene alla sua possibile dicibilità. Nell’epoca attuale ciò che conta è, infatti, la necessità di una nuova estetica, che oltrepassi definitivamente ogni limitazione vitalistica, che caratterizzava invece gran parte delle attività della precedente Body art. Lo strumento essenziale, non solo per comunicare, ma anche per legittimare la performance metamorfica di Orlan, messa in scena e vissuta fisicamente dall’artista sotto il bisturi chirurgico, è un mezzo immateriale, il soft elettronico e televisivo, che ne permette la diffusione simultanea, a livello planetario. Una straordinaria consequenzialità si sviluppa attorno agli strumenti utilizzati in questo spettacolo; il pennello che traccia i segni di intervento sulla faccia di Orlan lascia il posto alla manovra del bisturi che incide la pelle nel momento in cui il pennello elettronico comincia a spazzolare il fondo del nostro monitor, grazie a cui possiamo assistere in prima fila all’intervento. Performance metamorfica: nel senso che presenta la mutazione della forma originaria dell’aspetto e contemporaneamente codifica l’aspetto metaforico della metamorfosi, ovvero la definitiva sparizione dell’identità del soggetto post-moderno all’interno della cronenberghiana trasparenza elettronica e il suo trasferimento, sempre cangiante e imprevedibile (imprendibile) nella nuova carne televisiva (per l’appunto videodromica).

Riprendiamo quanto detto in corpo: Il viso si produce solo quando lo astraiamo dal corpo e dalla stessa testa e ne cogliamo il codice, vale a dire la sua supersignificazione. Il suo appartenere ad un codice generale extracorporeo. Il viso è un’interfaccia tra colui che è visto e il nostro apparato semantico: uno strumento che permette la connessione simbolica. Il viso rende l’intera testa e poi l’intero corpo comprensibili.

La bocca e il naso, e innanzitutto gli occhi, non divengono una superficie bucata senza coinvolgere tutti gli altri volumi e tutte le altre cavità del corpo. Operazione degna del Dottor Moreau: orribile e splendida. La mano, il seno, il ventre, il pene e la vagina, la coscia, la gamba e il piede saranno viseificati.

Tutto dipende dal viso che si ha. Al punto che, proprio per questo motivo, l’uomo cerca di sfuggire a questo destino, falsificando il proprio viso. Viso-spia. Un paesaggio! Questa la ragione del velo islamico: la donna è tutta nella sua viseità, come documenta dolorosamente nelle sue opere l’artista iraniana Shirin Neshat.

Shirin Neshat, Rebellious Silence, 1994

Shirin Neshat, Rebellious Silence, 1994

Neppure gli occhi sanno esprimere quanto il viso (gli occhi, come le mani o i piedi o il naso o le orecchie non sono altro che frammenti di un corpo). Nel viso si rappresenta l’incarnato con l’utilizzazione pittorica e cromatica del colore pelle, il colore più difficile che esista, il colore che decide il naturalismo del tono dall’artificio del timbro, il rinascimento veneto dal manierismo toscano. Le diverse immagini fisiognomiche di Orlan, costruite su modelli desunti da celebri opere d’arte del passato, costituiscono una galleria evolutiva di autoritratti, concepiti e realizzati come viseificazioni all’interno di una logica provocatoria, che ha come obiettivo quello di colpire i luoghi comuni della cultura cattolica e occidentale in quanto essa ha di più sacro e inviolabile: l’integrità del corpo umano, e soprattutto del suo volto, inteso come specchio dell’anima e, per ciò, specchio della stessa immagine divina. É singolare che proprio la fotografia o comunque l’immagine tecnica serva all’artista contemporaneo per fissare l’irriconducibilità del soggetto ritratto ad una qualsiasi unità identitaria. Il corpo fotografico compare sempre deformato, frammentato, esploso; la sua ricomposizione è sempre disarmonica, eccedente, casuale.

Cindy Sherman, Untitled, 1992

Cindy Sherman, Untitled, 1992

Se Cindy Sherman riproduce il corpo umano attraverso il doppio montaggio teatrale e fotografico di pezzi di manichini ricomposti in grovigli d’orrore, Anthony Aziz e Sammy Cucher, rinnovando completamente la tradizione del ritratto fotografico, raffigurano corpi a cui sono erasi, in una sorta di damnatio memoriae, organi sessuali e tratti del volto, poiché sessualità, parole e sguardi sono ormai così facilmente alterabili da non essere più fondamentali per identificare l’individuo.

Anthony Aziz e Sammy Cucher, Dystopia, 1994-5

Anthony Aziz e Sammy Cucher, Dystopia, 1994-5

Nei visi, ricostruiti da Orlan, penetrano indifferentemente il bisturi (nelle peformance precedenti) o il pennello elettronico (nei lavori più recenti), innestandovi segni somatici, e soprattutto simbolici, di altre fattezze, di altri corpi, scelti non tanto per caratteristiche esteriori, fisiognomiche, quanto per qualità interiori, mitologiche, spirituali, letterarie o morali, di cui le corna faunesche, innestate sui lati della fronte, di cui Orlan si è dotata, son certamente sopravvivenze pagane nell’iconologia cattolica del diabolico. Ma ciò che maggiormente colpisce, in quest’irriverente imitazione di personaggi figurativi e mitologici, è il paradosso di fondo, poiché, rovesciandosi per la prima volta il rapporto, è l’opera d’arte che determina la forma e la rappresentazione del modello e non viceversa.

Corna faunesche adornano anche i personaggi mitologici, da ellenismo fantascientifico, di Matthew Barney: i tre satiri di Drawing Restraint 7 e il protagonista principale di Cremaster 4.

Matthew Barney, Cremaster 4, 1994

Matthew Barney, Cremaster 4, 1994

Per Barney, che compare personalmente in Cremaster 4 con quest’aspetto faunesco, il satiro rappresenta la sfida alla natura. Tutti i corpi messi in scena da Barney si rifiutano di sottomettersi alle leggi dell’identità, diventando forme impossibili, indescrivibili, se non grande approssimazione: “metà uomini metà animali”, propensi ad attività sessuali inutili, non procreative, e dunque artisticamente opposte ad ogni ordine naturale.

Yasumasa Morimura, As Rembrandt, 1994

Yasumasa Morimura, As Rembrandt, 1994

L’analogia tra le arti e il mondo è finita: i personaggi di Barney, i travestimenti di Morimura, le maschere chirurgiche di Orlan nascono direttamente dai geni trasmessi dall’iconoteca dell’arte e ad essa soltanto rispondono.
A partire dal 1990, Orlan denuncia lo standard della bellezza imposto al corpo umano e realmente impresso sulla sua carne. Passando indifferentemente dal reale al virtuale, Orlan sta riattraversando il mondo delle deformazioni antropologiche, ibridandosi con diverse configurazioni culturali per mettere in gioco ancora una volta il concetto d’identità del soggetto. Le ultime Self-hybridations propongono per i suoi aspetti mutanti nuovi criteri di bellezza distanti dalle norme convenzionali.

La cultura eminentemente tecnologica del nostro tempo ha prodotto una serie di grandi trasformazioni non solo nei modelli di vita, ma anche nei modi di interpretarli e di significarli. Il cambiamento maggiore avvenuto negli studi più recenti di estetica contemporanea riguarda il tentativo di ridefinire, più che aspetti teorici generali, la nuova popolazione di “oggetti” materiali ed immateriali, che determinano l’ambiente sempre più artificiale, che ci circonda, e nel quale siamo sempre più coinvolti. Lo spostamento dell’analisi estetica su obiettivi più circoscritti e definiti non è infatti casuale, essendo in parte determinato dalla necessità da parte del mondo produttivo attuale di trovare per le proprie merci, in incessante innovazione, un senso giustificativo quanto meno di tipo formale, dal momento che risulta definitivamente improponibile il ricorso a teorizzazioni e sistemazioni d’ordine etico morale. Il fenomeno di un’estetica diffusa nasce proprio su queste premesse. Possiamo dire che la tecnica odierna è produttrice, prima ancora che di funzioni, di “bellezza”: l’intera storia del design, dalla metà dell’Ottocento ad oggi, può essere rivisitata attraverso lo studio della progressiva ipersignificazione che le merci hanno conquistato grazie all’inserimento al loro interno di una nuova qualità energetica, che ha saputo trasformare ogni merce in un’entità dotata di forte attrattività. Le cose si sono metamorfizzate, conquistando una sensibilità, un’intelligenza e un sexappeal, che Perniola ha saputo acutamente descrivere ed analizzare.

Gli oggetti e gli strumenti, che ci attorniano, testimoniano tutti, infatti, una propensione alla sparizione fisica e alla sostituzione di congrue parti del loro composto chimico fisico in informazione. Lo stesso corpo umano, da un punto di vista biologico, è ormai un organismo insufficiente ad entrare in relazione con il mondo esterno. La sua obsolescenza biologica è colmata da innumerevoli e sempre più innervate protesi di natura elettronica. Il nostro corpo, grazie all’entità delle sue nuove protesi tecnologiche, è diventato un corpo parzialmente digitale.

Esthetique Industrielle

Prendiamo un mobile esemplare: la sedia. La sua storia “produttiva” ci fa comprendere la vettorialità dell’estetica sotto il profilo industriale, potremmo dire politico. La sedia radicalizza emblematicamente la relazione tra estetica e design: essa è l’oggetto di un’industria, che produce forme sensibili, visualizzate esteticamente, con rilevante prevalere dell’aspetto apparente sulla buona funzione e, dunque, metafora dell’intera tipologia delle merci prodotte dall’industria a partire dagli inizi del secolo Ventesimo, il cui fine sarà quello di inserire nel processo produttivo della macchina il codice genetico della componente estetica come valore intrinseco. Solo in seguito, a partire dalla metà degli anni Ottanta, questa componente estetica diventerà anche e soprattutto un valore estrinseco, infraoggettuale, determinato dall’accelerata diffusione e pervasività della tecnica a livello mondiale, che induce le industrie ad accentuare in maniera esponenziale le caratteristiche filosofiche della sua produzione, inducendo comportamenti e performance con significati universali. E dunque estetica non tanto come pelle esteriore, forma esterna, esodermica, ma intrusione profonda e strutturale (linguaggio-corpo) nella materia stessa della cosa. Cosalità geneticamente trasformata dall’interno attraverso il complesso concorso di vettori-forza interagenti, messi in moto dall’Esthetique Industrielle, organigramma sinergico di discipline – saperi – pratiche (design + architettura + artigianato + informatica + semiotica + arte + sociologia + pubblicità), senza tuttavia che nessuna di queste discipline abbia potuto mettere in analisi l’estetica come modello fondamentale epistemico di ogni progetto. Eppure la condizione esperenziale del godimento di qualsiasi elemento concentrazionario d’attrazione architettonica, dal Beaubourg al Salomon Guggenheim Museum di Gehry al parco tematico (Disney Corporation Philosophy …), non è forse vero che s’inscrive deliberatamente nella sfera globalizzante dell’estetico?
E in quale altra dimensione concettual-sensoriale s’inscrive oggi il progetto, se ogni architettura viene proposta come macchina condensatrice e insieme irradiante di linee voluttuarie di forza, e tali da modificare transiti, consumi, comportamenti a scala ultraurbana? Unica disciplina, l’architettura, capace di tradurre in forme l’immaginario, creando metafore. Da una sedia ad un’architettura; come dire, dal cucchiaio alla città, il percorso è tracciato esteticamente altrove, magari ex cathedra teologico-storica… La sedia “tipicizza”; si insedia tipicamente, stilisticamente e formalmente; in una parola, semantizza, essendo sempre una cifra semiotica, che mette in figura (relativa) la sedialità. La tipicizzazione implicita doppiamente l’estetico: l’estetica della funzione e la funzione dell’estetico. La piccola utopia versus la performance dell’oggetto. Qui s’intreccia, dando spettacolo, il moderno e il postmoderno, la società/civiltà del progetto e la società/cultura della simulazione. L’estetica postmoderna assume dell’oggetto la sua relazione con l’esterno, il suo presentificarsi senza passato (il passato dell’oggetto è il suo “lavoro”!) e il suo rapportarsi al sistema globale dell’artificiale; l’estetica moderna vede, invece, nell’oggetto la sua irrisolta tensione tra lavoro e prodotto, tale per cui la forma “esteticamente risolta” appare come surplus progettuale. Una sedia postmoderna riversa nella pubblicità, nella sua immagine, tutto l'estetico: spettacolarizza; la sedia moderna ricorre all’arte (alla storicizzazione dell’arte) per costruirsi un’immagine in sè: drammatizza. Snodo epocale è, per l’appunto, l’uscita dell’estetico dall’arte: ciò avviene quando il moderno focalizza la consapevolezza che il futuro non può più essere prefigurato e organizzato né dall’arte né dal politico, ma dall’economico. Il moderno abbandona il progetto nella logica di valorizzazione delle cose unicamente in quanto merci. Il pensiero di “come fare” s’allontana per sempre dalla necessità del “produrre”.

Etnos

Arti e mestieri, estetiche e progetti, s’intrecciano, si confondono, s’annullano reciprocamente in Art-Guild, Art-and-Craft, Vuchtemas, Wiener Werkstätten, Deutsche-Werkbundt, Bauhaus …! In ogni luogo del mondo c’è traccia di… razionalità. È il coronamento del sogno espansivo dell’Occidente per insediamenti progressivi, che industrialmente si potenzia alla metà dell’Ottocento: La sedia con fanciulla nuda e scimmietta, nel noto dipinto di Gauguin, esplicita infatti la naturalezza dell’insediamento coloniale in una natura già organizzativamente artificiale, detta esotica.

Paul Gauguin, Sedia con fanciulla nuda e scimmietta

Paul Gauguin, Sedia con fanciulla nuda e scimmietta

Nella moderna colonizzazione bianca del pianeta, dalle Americhe alle Indie all’Africa, sempre la stessa sedia – esposta alla frescura del padiglione o del terrazzo – sollevante il piano di seduta quaranta centimetri al di sopra del suolo, su cui sono accovacciati gli indigeni: sedia che misura, con il solo dispiegarsi, la distanza e la missione universale del potere.
Estetica versus ethos, etica connotata nella sua radicalità classica con l’etnos, la moltitudine, il popolo. Qui, nell’immisurabilità politica dell’etnos, nell’impossibilità politica di un’etica della moltitudo – se non per normativizzazioni, ordini, regimi, il grande vecchio era all’angolo! – la sostituzione con l’estetica, con l’appetibile, giustificando il fenomeno attrattivo – il sex appeal – delle cose, tutte trasformate in merci a vario livello di qualità, di commerciabilità e di consumo. Non il progetto e la cosa, per la moltitudo, ma un’ordinata cosmologia di offerte che giungono ad ogni soggetto da infiniti soggetti produttivi. Il legame moderno, che relazionava l’oggetto esteticamente prodotto (il design) ad un soggetto sensibile estetico, si spezza nel rendersi estetica d’ogni merce prodotta a prescindere dalla sensibilità (cultura storica e semantica) di chi l’utilizza. È il soggetto ad essere stato reso assente, privato della facoltà di giudizio, della possibilità di scelta, vale a dire della critica, di fronte alla planetarizzazione (anche esteticamente veicolata) della merce.

L’estetica della merce postmoderna non è più in valore, sia pure comunicando. Pubblicità non significa verità né orizzonte di senso. La merce è già tutta consumata nel paradosso della sua tripla spettacolarizzazione: attrazione, prefigurazione, simbolicità. L’estetica diffusa possiede la caratteristica di comporre ed appianare i conflitti che sottostanno ad ognuno dei nodi seguenti: l’etica della produzione, l’etica della comunicazione, l’etica dell’uso. L’estetica s’appella alla sua genetica classica, trasferendo il concetto di bello da un punto all’altro della sua strategia diffusiva: dimensione della merce, dimensione della comunicazione, dimensione del consumo. È dello spettacolo l’energia che permea questa forza persuasiva e pervasiva a diffusione globale, che ha - alla fine si comprende – perfettamente realizzato il suo scopo: attraverso il componimento dei conflitti, operato mediante il ricorso alla bellezza, far circolare il medesimo ethos, vale a dire la medesima serenità in ogni soggetto coinvolto, dal progettista al produttore al comunicatore all’utilizzatore finale, in una circolarità senza interruzioni né contrasti, circolarità che appiana anche ogni discontinuità tra soggetto ed oggetto, unificati dal medesimo stato di reciproca sensibilità e tensione. Il soggetto a sentirsi sempre più come una cosa che sente, la cosa sempre più come un oggetto desiderante, alla ricerca del suo soggetto, che preseleziona tecnicamente.

Realizzandosi eticamente l’estetica s’innesta perfettamente nel progetto della tecnica – il cui orizzonte di senso è antagonistico rispetto a quello prodotto dal politico, il cui fine è quello di logicizzare i rapporti, evidenziandone i nessi, le cause, le implicazioni, gli effetti, le tensioni e ipotizzandone soluzioni dialettiche. Si diffonde il “piacere”, è questa la beanza dell’estetico nelle sue diverse dislocazioni, spostando il suo obiettivo dall’arte alla vita e dalla politica allo spettacolo: l’estetica si diffonde là dove la tensione (artistica, sociale e politica) arretra! Tutto diventa trasparente, nessuna frizione né opacità nell’ingranaggio della macchina estetica della tecnica. Il mondo non è stato mutato dal progetto estetico delle avan­guardie; sono stati la tecnologia, l'industria delle merci, la pubblicità e i media ad impadronirsi dell'eredità artistica e a veicolarne le qualità estetiche come parte aggiunta al proprio prodotto. Dal canto suo la ricerca artistica attuale non si pone più la questione di aprire un dialogo con il mondo, ordinato o di­sordinato che sia. Non si pone più il problema della sua rap­presentazione, ma della propria competizione con la dimensione tecnologica dell'artificiale. Il nostro tempo non solo ha perso la coscienza del mondo, come totalità dei fatti, come universo regolato e rispettabile, ma ne ha perso persino la nostalgia e il ricordo: tutto ciò che vediamo appartiene ormai ad una prefigurazione pubblicitaria, che ha accelerato l'evo­luzione artificiale della vita e dei comportamenti. Le immagini sono solo immagini di altre immagini. Lo stesso fenomeno artistico appartiene oggi ad una dimensione assai vaga ed incerta, essendo messa in discussione da una serie di cause, che possiamo facil­mente elencare: il prorompere di una creatività extra-artistica, di tipo scientifico, caratterizzata da una predominante estetica, il progetto tardo-capitalistico di un'iperestetizzazione delle merci e degli apparati comunicativi e riproduttivi, il processo globale di spettacolarizzazione del sociale, l'avvento di nuove famiglie di immagini, di tipo simulativo e digitale, che si affiancano a quelle di tipo analogico, la sostituzione graduale di una percezione visiva con una percezione televisiva e l'irreversibile mutamento filosofico in atto nella lettura complessiva del mondo e del nostro rapporto con la realtà. Queste considerazioni sintetiche andrebbero alla fine riesaminate all'interno della più generale dimensione del cosiddetto fenomeno postmoderno, che ha visto progressivamente venire a cadere molti modelli della cultura moderna, dando luogo ad un insieme estremamente ambiguo di categorie oppossitive, come quelle di centrale/periferico, autentico/inautentico, ori­ginale/copia, realtà/simulazione, e così via.

Quali sono, pertanto, le nuove forme simboliche di rappresentazione all’interno della società spettacolare e mediatica, caratterizzata dall’intreccio tra scienza, tecnologia e nuove estetiche comportamentali e quali arti “moderne” sopravvivranno nello spazio extraterrestre ed in quello elettronico? Quanto abbiamo detto individua una serie di coordinate concettuali, a partire dal riconoscimento della sparizione progressiva dei corpi fisici, delle materie atomiche e delle merci pesanti e, nello stesso tempo, nella constatazione della parallela espansione di dimensioni immateriali, di merci imponderabili e di virtualità esistenziali, determinanti estetica! Le produzioni attuali di arte, architettura, tecnica e elettronica s’intrecciano, infatti, in una dimensione rizomatica. Tutta l’arte (così come tutta l’architettura) è coinvolta in questa “fusione” fredda, determinata dall’attuale fase del capitalismo, che coincide con la nascita dell’economia delle reti, lo spostamento del capitale da una dimensione fisica ad un regime immateriale, dalla trasformazione dei beni in servizi, dal mutamento delle merci in accessi, leasing, utilizzi, affitti. L'estetica, come altra scelta rispetto all'etica, diventa nella tradizione del postmoderno, unica dimensione totaliz­zante delle realtà. Estetica come estesica, vale a dire come bellezza dei sensi, come totale esposi­zione "superficiale” della bellezza! L’estetica diffusa, dunque, produce maquillage: mascheramento e mimetizzazione, per sottrarsi, come sul campo militare, allo sguardo dell’arte, vale a dire allo sguardo critico!