Il problema epistemologico della percezione si divide tra questioni fisiche e psicologiche, difficilmente conciliabili, se non mediante teorie fortemente piegate verso l'una o l'altra direzione. Un grande studioso come Mach ha illustrato in maniera magistrale il punto dal quale, sempre e comunque, si deve partire per affrontare ogni analisi percettologica: il limite stesso della nostra capacità fisico-percettiva, limite e confine tra il nostro corpo, con i suoi organi di senso e il mondo esterno, e nel quale noi ci poniamo per osservare quel fenomeno del quale vogliamo parlare e dal quale noi stessi siamo fatalmente esclusi. Qui s'apre, più che otticamente e fisicamente, una stupenda metafora poetica. Noi non ci vediamo mai completamente, mentre percepiamo! La nostra testa è esclusa.
L'Io di un filosofo non monocolo nel tentativo di osservare se stesso. Disegno del fisico e filosofo della natura Ernst Mach (1838-1916), tratto dal suo libro, L'analisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, l'io non sarebbe che un complesso d'impressioni sensoriali... Da Le Scienze, Quaderni, 91, Filosofia della mente, 1996
Gli studi sulla percezione sono, generalmente, applicati all'analisi di fenomeni per così dire classici, che non prevedono ancora, e non affrontano comunque, la grande e sconvolgente novità fenomenica prodotta dalla comunicazione tecnologicamente avanzata, multimediale, interattiva, diffusa globalmente in rete.
Ciò che, percettivamente, avviene nel nostro cervello, quando osserviamo uno spettacolo cinematografico o televisivo o un'animazione apparsa sullo schermo del monitor, è enormemente complesso, anche e soprattutto in rapporto a ciò che la reiterazione di queste esperienze può provocare nel tempo. Non dimentichiamo quali sono le caratteristiche della comunicazione mediatica odierna: la virtualizzazione spaziale, la simulazione, la simultaneità, la compresenza di più generi, l'effettivizzazione, vale a dire l'uso e l'abuso di sofisticate tecniche grafiche di animazione, capaci di produrre degli effetti spettacolari sempre più fantastici e sensorialmente coinvolgenti. Quasi tutta la comunicazione visiva attuale, dal cinema alla televisione al computer (vi è un flash) è un insieme di programmi ad effetto. Sono gli effetti che contano (anche economicamente!) nell'ideazione e nella produzione di un'opera.
Il mondo degli effetti: singolare coincidenza tra fenomenologia e politica! Gli effetti producono attrazione per bombardamento ininterrotto di stimoli, la politica gioca pubblicitariamente con formule ad effetto... persuasivo.
Gli effetti appartengono al divertimento, nel senso letterale del termine: dis-vertere, distogliere l'attenzione da questioni più gravi.
Acquafan, Jesolo
L'immersione nei luoghi dell'intrattenimento notturno ne è una prova.
Una nuova sociologia del loisir (del piacere), s'impone, a partire dal riconoscimento che tale "piacere" si attua, si progetta, si utilizza, non più nel tempo libero (quel tempo che, come dice la parola – ma pochi s'erano accorti....- era ritagliato dal lavoro salariato in modo da rifornire energie per poter ritornare a lavorare!), ma nel tempo liberato (quel tempo che possiamo dedicare ad attività diverse e in cui il soggetto si autoorienta).
Il luogo per eccellenza di questa liberazione, ma anche di una nuova progettazione, è il tempo della notte, là dove gli effetti raggiungono la loro massima illuminazione. Dove ogni percezione è moltiplicata ed acuita, inedita ed irripetibile, cybercizzata e, nello stesso tempo, socializzata.
La sociologia del loisir, come sostiene Everardo Minardi (Everardo Minardi, a cura, I parchi di divertimento nella società del loisir, Franco Angeli 1998 e soprattutto, per quanto qui attiene, Economia e sociologia della notte. Percorsi e sistemi di analisi, Homeless, 2000) pretende e produce una nuova percezione della realtà.
Da quest'ultimo libro vorrei citare quanto segue, per cominciare a comprendere quale sia l'entità delle mutazioni in gioco nell'esperienza attuale del piacere: Provate a cambiare le rappresentazioni del tempo e cambierete il mondo!". Questa potrebbe essere l'espressione con cui affrontare il problema della riorganizzazione dei tempi del giorno e della notte: tempi che si sovrappongono, s'intrecciano, sono sottoposti a crescenti trasposizioni così da renderli non più immediatamente conoscibili come momenti separati, contesti sociali e culturali caratterizzati dalla discontinuità. Nello slittamento di un tempo nell'altro so confondono le pratiche sociali, si contaminano le regole dei comportamenti sociali, si rompono i recinti istituzionali delle interazioni e degli scambi di mercato, si disperdono i significati di mondi e di universi simbolici tradizionalmente molto ben differenziati
(p. 9).
Per chi voglia approfondire la questione specifica del rapporto che intercorre tra la progettazione, il consumo e la percezione dei nuovi spazi d'esperienza di intrattenimento (entertainment) può ricorrere alla bibliografia citata alla fine.
Dobbiamo chiederci se non si debba affrontare la questione percettologica generale da un altro punto di vista, per esempio assumendo, almeno inizialmente, l'ipotesi di una trasformazione evolutiva e adattativa degli stessi organi di senso ad un modello fenomenico del tutto nuovo. Il corpo biologico dell'uomo riesce a seguire evolutivamente la crescita esponenziale della sua cultura, o, per meglio dire, la complessità progressiva degli effetti prodotti dalla sua cultura (tecnologica)?
Il cosiddetto "realismo percettivo" sembra, comunque, essere destinato a divenire un modello cognitivo pericolosamente obsoleto, che purtroppo ancora sopravvive nelle concezioni di interpretazione comune della percezione visiva, proprio in quanto viene normalmente riproposto dall'educazione tradizionale, proprio a partire dalla scuola.
Certo, la questione classica della percettologia, ha implicazioni storiche e persino critiche non indifferenti, che hanno permesso di comprendere meglio intere vicende della cultura artistica del passato. Faccio un esempio: la differenza tra le due principali scuole artistiche del Rinascimento, quella fiorentina e quella veneziana, può essere in parte spiegata anche ricorrendo ai due contrapposti modelli percettologici che distinguevano le due scuole pittoriche, modelli che, evidentemente, erano a loro volta una conseguenza di diverse concezioni filosofiche e persino religiose della realtà dei due sistemi culturali e politici.
Per gli artisti toscani, come, per esempio, Botticelli, si riteneva possibile indicare con un segno preciso e incontrovertibile i contorni delle cose, ognuna delle quali era ben isolabile dallo sfondo (si pensi che in molti dipinti su tavola di Botticelli è possibile ancora individuare un vero e proprio solco inciso in corrispondenza delle linee grafiche dei contorni); per gli artisti veneziani, invece, l'intento era quello di fondere insieme, nell'unità della luce naturale, i corpi e gli ambienti, utilizzando la sfumatura cromatica, che permetteva di non interrompere la continuità tra figura e sfondo (commovente presenza di un'impronta digitale di Giovanni Bellini in una delle sue opere...).
La contrapposizione tra disegno e colore (o, comunque, tra figura e sfondo) ritornerà più volte, anche se con diverse caratteristiche, nella storia successiva dell'arte, diventando una vera e propria ossessione nel momento intensissimo dell'arte astratta americana degli anni Cinquanta.
Rothko, Yellow over Purple, 1956
Ad Reinhardt, Abstract Painting, 1960-66
Ad Reinhardt, Achrome, 1958
Ad Reinhardt, RE 19, 1958
Artisti come Rothko o come Ad Reinhardt ci hanno lasciato opere straordinarie di enorme drammaticità: il loro intento fu quello, come poi, in chiave differente, ma non meno inquieta, sarà quello di Manzoni o di Yves Klein (le opere riprodotte sono, nell'ordine, Rothko, Yellow over Purple, 1956; Ad Reinhardt, Abstract Painting, 1960-66; Achrome, 1958; RE 19, 1958, di pervenire all'assoluta inseparabilità della figura dallo sfondo, alla ricerca di una pura e definitiva immagine della disperata astrazione dal reale.
La comunicazione visiva va percepita, pena la sua insignificanza. Un destino obbligato impone al comunicar per occhi un feed back, un circuito di ritorno. O la si capisce, la comunicazione, o essa non è tale. Logico. Entra per l'appunto nella logica. Ci si scontra ogni filosofo della logica, a partire da Wittgenstein.
La questione principale da cui parte ogni osservazione sulla percezione è la domanda se essa costituisca un attributo oggettivo della fenomenologia del vedere, valido per tutti e per sempre, o se essa non sia che la manifestazione soggettiva dell'interpretazione o se, piuttosto, nulla abbia a che fare con il soggetto. Uno dei trattati più importanti scritti, a suo tempo, in Italia, sui processi cognitivi, "il Kanisza" (G. Kanisza, P. Legrenzi, P. Meazzini, I processi cognitivi. Un'introduzione alla psicologia generale, Il Mulino, Bologna 1975), apriva la sua analisi con un densissimo capitolo dedicato agli Enigmi della percezione
!
Tutto è incerto nella percezione. Già lo stesso termine contiene un equivoco: se percepire significa assumere i dati della realtà esterna attraverso i sensi e l'intuito
, vale a dire, più sinteticamente, "comprendere" (dal suo etimo per-capere, quando i termini capere e capire risultano all'origine identici!), nell'esperienza quotidiana della nostra assunzione dei dati della realtà ci accorgiamo che tutto nel campo del visibile è un tranello.
Ogni prestigiatore si fa forte esattamente dell'ingenuità dei nostri organi di senso e della lentezza dei nostri movimenti oculari.
Forse, addirittura, il pensare che si debba vedere per percepire è un inganno. Ludwig Wittgenstein, a tale proposito, fa la seguente osservazione: Sarebbe concepibile un tipo di percezione sensoriale con cui potremmo afferrare la forma di un corpo solido, l'intera forma, e non solo ciò che si può vedere da un particolare punto di vista? Una persona che la possedesse sarebbe in grado, per esempio, di modellare un corpo in creta senza girargli intorno o tastarlo
(Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia (1946-1947), a cura di G. E. M. Anscombe e G. H. von Wright; ed. it. a cura di Roberta De Monticelli, Adelphi, Milano 1980, p. 260).
Il vero problema è comunicare la percezione: qui tutto precipita, l'inganno si svela. Ognuno percepisce, infatti, solo ciò che la sua cultura gli fa comprendere! Non tutti gli studiosi sono, comunque, concordi nel definire la percezione come un fenomeno collegato alla cultura del soggetto.
Uno studioso come James J. Gibson, per esempio, sostiene che essa dipende dalla configurazione dell'ambiente fisico, non coinvolgendo affatto alcuna forma di processo sensorio e culturale. La sua tesi consiste nell'affermare che noi percepiamo la realtà movendo continuamente gli occhi per seguire ciò che ci interessa ("visione ambiente") e che, nello stesso tempo, spostando il nostro corpo attorno all'oggetto, a seconda delle nostre esigenze ("visione deambulatoria"). La percettologia classica, generalmente, tenderebbe, invece, a ridurre la complessità della visione a una sequenza di istantanee fotografiche.
Il mondo, per Gibson, è un ecosistema ambientale, in cui gli oggetti e il mondo-ambiente interagiscono in oggettive relazioni di misura. La percezione, dunque, sarebbe una diretta conseguenza delle proprietà intrinseche dell'ambiente e quindi l'effetto di un'interazione funzionale, non coinvolgendo affatto i nostri processi sensoriali interpretativi a priori.
Tutte le percezioni sarebbero date solo in rapporto alla posizione del corpo e ai suoi movimenti relativi.
Molte delle idee di Gibson intorno alla percezione furono sviluppate ed applicate in campo aeronautico durante la seconda guerra mondiale: i piloti venivano addestrati ad orientarsi topograficamente in maniera diretta e quasi automatica in funzione della morfologia del suolo - il quale possiederebbe segni caratteristici ed invarianti (texture, luci, ombre, linee) -, evitando così di dover cercare d'interpretare tali segni.
Gibson afferma che in ogni atto percettivo quotidiano l'osservatore si trova davanti agli occhi pezzi di realtà, ognuno dei quali è un deposito illimitato d'informazioni
. Trasformare queste informazioni in comunicazioni mediante immagini comporta una selezione durissima dei dati percepiti.
Nell'opera d'arte (figurativa, s'intende) noi percepiamo altri dati, offerti dall'artista ad integrazione di quelli mancanti. Questa la differenza tra informazione e comunicazione!
L'informazione pittorica, per quanto aderente alla realtà, ha, per Gibson (che, in questo momento rileggiamo attraverso l'ultimo saggio di Manfredo Massironi, L'osteria dei dadi truccati), tre limiti insuperabili:
Non possiamo neppure pensare d'affrontare scientificamente, in questo contesto, l'enorme questione della percezione, per cui ci limiteremo ad argomentare per esempi artistici, nei quali la comunicazione visiva è percettivamente messa in crisi, ma anche richiamata alle sue leggi di costanza!
Tra tutti gli strumenti necessari ad una prima percezione sensoriale dell'opera, per giungere quindi all'emissione di un giudizio, è implicito un "buon occhio", nel doppio senso di una buona vista oculare e di un buon gusto estetico generale, capace di considerare l'arte stessa come un fenomeno enormemente complesso, che poco ha a che fare con l'allietamento e la bellezza, che sono due conseguenze eventuali e auspicabili, ma non implicite né scontate!
Cosa rende bella un'opera d'arte? Rende bella un'opera d'arte solo il risultato della sua osservazione critica, svoltasi attraverso una serie progressiva di percezioni, emozioni, riflessioni, comparazioni, valutazioni, giudizi. Il bello è solo, dunque, un effetto!
Il visibile, a qualunque categoria di cose faccia riferimento, è in/un giudizio culturale: la cosa è sempre pre-vista, inserita in un contesto che le rende misurabile, analizzabile, definibile.
Quattro opere sulla percezione impossibile! Sul trucco che si nasconde dentro e dietro l'opera.
La prima opera di cui ci vogliamo occupare, è un tempio, anzi il tempio per eccellenza, il Partenone.
Ruggero Pierantoni, Il Partenone
Ruggero Pierantoni, a cui dobbiamo un precedente straordinario lavoro sull'occhio e l'idea
- in un saggio compreso nel suo libro più recente, intitolato Verità a bassa definizione! - ci dimostra come esso sia effettivamente imprendibile all'occhio. Impossibile raggiungere la sua percezione corretta. Pierantoni si pone il seguente interrogativo: da dove devo vedere il tempio? Per quale punto di osservazione è stato pensato e costruit? Da dove il tempio appare percettibilmente definibile?
Pierantoni parte da una semplice equazione: se l'oggetto è alla distanza D, se ha una dimensione H, se la distanza focale del cristallino dell'osservatore è di 17 millimetri, la dimensione h dell'immagine sarà data dalla relazione D:17=H:h. Innanzitutto, per cogliere l'insieme complessivo del tempio, occorre portarci molto lontano, ad alcuni chilometri dall'Acropoli, e dunque essere su una barca al largo del Pireo! Da quella distanza, fatti i calcoli, il Partenone si proietta nella retina con un'altezza di 0,014 millimetri, sottendendo un angolo percettivo di 20'; sarà dunque, per quanto ridotto, compiutamente visibile.
Compiutamente? Non percepiamo né le colonne né gli intercolumni! Se ci avviciniamo di più – e Pierantoni scandisce, tappa dopo tappa, le progressive distanze e misure – non vedremo ancora l'insieme percettivo dei particolari. E quando finalmente ci mettessimo a qualche metro di distanza, ecco che le colonne lascerebbero percepire le loro famose scanalature, le quali, tuttavia, vedremo solo poche per volta, venendo così a perdere di fatto la ragione stessa di questa meravigliosa ingegneria ottica, inventata appositamente per l'occhio, prima ancora che per la fede!
Insomma, conclude Pierantoni, la percezione possibile del Partenone, è in realtà una percezione temporale, la somma (impossibile) di tutte le progressive percezioni e di tutti i successivi movimenti oculari di osservazione. Forse, l'unica percezione possibile è quella mediata da una ferma immagine, come quella fotografica!
La seconda opera, che vorrei proporre, è una vecchia opera in video, Visit to Pompei (1991), di Studio Azzurro (Paolo Rosa, Paolo Cirifino, Leonardo Sangiorgi, a cui bisogna aggiungere Stefano Roveda).
Studio Azzurro, Visit to Pompei, 1991
Si tratta di una ripresa, effettuata utilizzando una pellicola sensibile agli infrarossi. Le azioni riprese, in piena oscurità, sono apparentemente molto semplici, come lo strofinio delle mani su un busto di marmo, un libro ed altri oggetti, ognuno, tuttavia, carico di significati simbolici! Il passaggio della mano sull'oggetto ne aumenta il calore, rendendolo visibile all'occhio della macchina e rimanendo tuttavia invisibile a quello umano!
Il significato dell'opera è presto detto: la tecnologia, se usata poeticamente permette non solo di vedere meglio, ma di vedere oltre.
E, tuttavia, questa semplice azione del toccare le cose per portarle tecnicamente nel visibile, contiene un messaggio recondito: l'ottica artificiale e televisiva permette la visione (dell')invisibile! Un invisibile, che non appartiene più alla dimensione della metafisica, ma a quella del soft, non più allo spirituale dell'arte, ma alla logica della macchina.
Una logica, e questa è la conclusione spiazzante, che ci permette di cogliere, dietro il fantasma iconico prodotto televisivamente, la presenza di un principio di realtà non falsificabile. Il "vedere oltre" presuppone sempre e comunque una questione di soglie...
Al di là della soglia, solo tuttavia l'intervento penetrativo della mano reale, fisica, dell'uomo, permetterà di sondare e di toccare gli eventuali presenze del regno invisibile.
Il calore e l'energia provocati dal fatidico incontro tra la mano e la macchina permetterà di illuminare, anche se per breve tempo, la parte nascosta del reale! Anche se questa realtà, all'occhio spietato del soggetto postmoderno, appare ormai come un residuo archeologico di una Pompei soffocata dal fall down della tecnica.
Inoltre, sempre all'interno della ricerca dei significati (altrimenti che "comunicazione visiva" sarebbe?) l'azione di Studio Azzurro ripropone la stupenda metafora dell'arte dopo Duchamp: è vivo ciò che è artistico, in quanto indicato (toccato!) dalla mano dell'artista. La mano dell'artista produce energia, cambiamento di stato, mutamento nell'esserci delle cose!
Trasformazione dell'inanimato in animato, in "corpo vivo", anche se è necessario disperdere molta energia per rendere percepibile il corpo dell'ossessione.
Raggiungimento estremo di quel "percepire" che significa, letterariamente (il prefisso per- indica di un'azione il "farsi fino in fondo"), "prendere per vero". In tedesco: wahrnehmen, percepire e für wahr nehmen, prendere per vero.
Il terzo esempio di opera artistica contiene, anzi presuppone un inganno.
Vorrei parlare della scultura (?) di Anish Kapoor, Madonna (1989-90).
Anish Kapoor, Madonna, 1989-90
L'opera consiste in una grande semisfera concava, realizzata in fibra di vetro, di quasi tre metri di diametro, ricoperta sulle due facce di un particolare pigmento in polvere di colore blu scuro. Questo pigmento è talmente polverizzato, potremmo dire atomizzato e, nello stesso tempo, così coprente, da dare l'impressione di essere una sostanza impalpabile, capace di rendere lieve la pesantezza della materia al punto di far sparire il corpo stesso della scultura.
Lo spettatore viene ammesso alla presenza dell'opera in maniera frontale. Vincolata al muro da un sostegno invisibile, l'opera appare come sospesa. Non è assolutamente possibile comprendere cosa stiamo vedendo. L'oggetto sembra costituito da un grande disco circolare e quest'impressione aumenta, invece che diminuire, man mano che ci avviciniamo ad esso.
Arrivati quasi a contatto, lo spettatore percepisce la presenza di qualcosa d'inspiegabile; il disco sembra dotato di una forza attrattiva e misteriosa: bisogna allungare la mano per capire se si tratta di una superficie o di una cavità. In quel momento avviene qualcosa d'irreversibile. Oltrepassata l'illusione della superficie, la mano penetra nello spazio improvviso del vuoto, del nulla e dell'assenza. La mano, e con essa tutto il nostro corpo sensoriale ed esperenziale, ha osato infrangere la virginea soglia che protegge la cavità e che divide il visibile dall'invisibile, l'illusione dalla realtà.
S'è compiuto un atto di violenza; si è penetrati nella profondità dell'opera, quella profondità - anche metaforica - che doveva rimanere intatta e inesperita: è come se avessimo infranto un velo protettivo, un imene simbolico, per provare a noi stessi la nostra forza e la nostra potenza. Avremmo dovuto fermarci davanti al mistero dell'opera, esattamente come ci si deve fermare davanti al mistero del sacro, senza pensare di riuscire a razionalizzarlo.
La verginità di Maria rappresenta una questione analoga, per chi ha fede. Per chi ha fede Maria può perfettamente dare al mondo un figlio, anche se nessun maschio l'ha messa incinta. Questa verità di fede è e deve rimanere incontrollata e incontrollabile.
Il titolo che Kapoor ha dato all'opera è, per l'appunto, Madonna. E il significato ultimo di questa provocazione consiste nell'improvvisa consapevolezza che, nel tempo disilluso e laico della nostra epoca, tutto deve essere provato, tutto deve essere sfidato, perché nulla è più improbabile.
Una delle opere storiche più interessanti dell'artista americano Bruce Nauman è Video Corridors (1969-1970).
Bruce Nauman, Video corridors, 1969-1970
In quest'installazione ambientale, che corrisponde in effetti ad un lungo e stretto corridoio, che ha da una parte, sospesa, una telecamera, e, dall'altra, a terra, un monitor, Nauman concretizza la linea immaginaria che collega il punto di vista con il punto di fuga, rappresentati dai due strumenti televisivi: lo spettatore, che si avventuri lungo questo corridoio, viene catturato e racchiuso tra queste due punti contrapposti, ma in circuito continuo. Non si riesce a sfuggire a questo cortocircuito: da una parte sei costantemente ripreso, dall'altra sei perennemente riprodotto. Il tuo vagare si è perso all'interno di uno spazio totale, dal quale è esclusa qualsiasi realtà esterna. È il fuori che è sparito. Sei solo tra ripresa e riproduzione!
La comunicazione visiva diventa autoreferenziale. È la sindrome dello specchio virtuale: ti vedi vedere. La simultaneità tra ripresa e riproduzione mette il soggetto di fronte alla propria ubiquità. L' immagine di sé diventa parte di uno spazio privo di dialettica e di confronto, delocalizzata. Il luogo fisico nel quale il corpo sembra misurarsi si trasforma in uno spazio la cui proprietà è data unicamente dalla durata dell'immagine.
Siamo all'interno di una nuova idea simbolica della prospettiva. Panofsky, nel suo celebre studio sull'argomento, aveva insegnato che il metodo prospettico è tutt'altro che il risultato di un calcolo di geometria ottica applicata alla rappresentazione, essendo piuttosto "un'idea essenziale dell'espressione".
In quest'ambiente performativo, realizzato da Nauman, lo spettatore, costretto a percorrere un corridoio ad imbuto, che aumenta la consapevolezza fisica della tridimensionalità, si vedrà, alla fine, ridotto e ricondotto all'interno dello spazio bidimensionale dell'immagine!
Lo spettatore diventa parte essenziale dell'opera: è lui che la riempie e che le dà senso, in una animazione allucinante. Ogni suo movimento fisico nella realtà-spazio diventa, così, riconfigurazione lineare, silhouette bidimensionale, all'interno della realtà-schermo. Doppia percezione. Schizica percezione. Così è la vita.
La quarta opera in programma: The Greeting di Bill Viola, un'opera che ha contribuito certamente ad assegnare all'artista il prestigioso riconoscimento del primo premio alla Biennale d'arte di Venezia nel 1995.
Bill Viola, The Greeting
Bill Viola, The Greeting
Si tratta di un video, ispirato ad un'opera famosa dell'artista manierista Pontormo, la Visitazione (1528-29 ca).
Viola riprende l'incontro delle donne ad altissima velocità, mentre la riproduzione avviene al rallentatore: dieci minuti di ripresa contro quarantacinque secondi di spettacolo!
Se nel dipinto del Pontormo la dinamica dell'incontro è risolta mediante l'accentuazione delle pieghe dei panneggi e l'avvitamento dei corpi, nel video di Viola essa si traduce in un esasperante rallentamento del tempo.
Una profonda analogia stilistica e concettuale lega insieme le due opere, una manierista e l'altra postmoderna.
Se la prima risolve la rappresentazione in maniera totalmente anticlassica (incredibile fuori scala dei due piccoli personaggi a sinistra, irrealismo dello sfondo, avvitamento delle figure, cromatismo cangiante dei colori delle vesti...), la seconda segna un'enorme distanza dalla cultura artistica del moderno (nessuna ambiguità semantica, perfetto adeguamento alla simulazione, superamento della soglia biologica della percezione...).
Vera icona, l'opera di Viola, dunque: le immagini, infatti, diventano icone quando vincono il senso relativo del tempo, pur rappresentando, o proprio per ciò, un evento temporale (L'Annunciazione, la Visitazione, la Fuga...). Perfetta percezione del tempo, del tempo che fa muovere, al nostro sguardo, il contenuto di un'opera, lasciando fermi gli occhi! Lavorando sul tempo, dilatandolo all'inverosimile, Viola ci fa rivisitare la Visitazione, ci fa entrare nella durata.
All'incarnazione della durata, all'autoconservazione del moto, alla nullificazione dell'altro (nessuno sguardo esterno è coinvolto nell'orbita di questo incontro), presenti nell'opera di Viola, fa da controcanto l'opposta valenza del dipinto pontormiano: qui, su un fondale metafisico alla De Chirico, la serie di rimandi psicologici tra le figure coinvolge anche lo spettatore.
Se le due figure in primo piano, nella manieristica Visitazione, si scambiano i loro sguardi misteriosi (le loro braccia abbracciano e chiudono uno spazio esclusivo), le due in secondo piano guardano verso lo spettatore (lo spazio si riapre verso di noi da dietro), riaprendo quella vertigine dello specchio, che ha attraversato tutta l'arte moderna fino alle soglie della postmodernità: qui non vige più l'ambiguità dello specchio e del doppio, ma la perfetta coincidenza degli opposti. La nullificazione del simbolico, del sacro. Pura percezione. Solo percezione, senza rielaborazione o crisi.