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Artista sconosciuto, vicino a Kano Motonobu, abate capo del tempio Daisen-in (1513 ca), Tokyo National Museum, foto elf.
Quest’immagine, che riproduce un doppio dipinto su seta, esposto al National Museum di Tokyo, costituisce una sorta di simbolo del mio modo di concepire la cultura e la vita, lo studio dei libri e quello del mondo “naturale” (ma come chiamare ciò che è esterno al libro?). Ambedue queste dimensioni vanno interrogate e studiate. Il libro senza la conoscenza diretta del sentiero e dei viandanti non può essere sufficiente, così come la sola esperienza del mondo non può permettere di vederne la storia e la ragione politica e sociale dei conflitti.
Cercherò dunque di decifrare il significato dell’opera. L’artista divide la rappresentazione in due parti: il viandante deve attraversare il baratro sopra uno stretto ponte e contemporaneamente deve passare da un dipinto all’altro. Il monaco (il sensei che partecipa del Tao (il termine Tao significa contemporaneamente “il maestro”, “la via” e “il nulla”), sta anche oltrepassando il limite fisico tra le due opere. Ha un libro in mano, sta leggendo. Se si concentra nella lettura perde la via, se guarda la via perde la parola. Siamo davanti ad una scelta vitale: dobbiamo decidere se continuare a leggere il libro e rischiare di cadere giù dal ponte della vita o riporre la conoscenza per essere sicuri di vivere senza rischi.
Ma c’è qualcosa in più. Il monaco porta, in bilico sulla spalla, due fascine di legna, raccolta nella foresta alle sue spalle e da cui sta uscendo. Sta leggendo un libro. Che relazione c’è tra tutto ciò? Le due parole “leggere” e “legna” derivano da un’unica radice indoeuropea leg-, lec-, che significa la faticosa operazione di scegliere, come infatti si sceglie la leg-na nel bosco, e come si sceglie la lec-tura nel labirinto della biblioteca.
l carattere cinese per libro (zhai) rappresenta un fascio di bambù legato insieme. i caratteri giapponesi che ne derivano rappresentano, il primo, un albero, il secondo un libro.
Cos’è dunque l’intelligenza (da intellego; inter-lego) se non il raccogliere con fatica i dati che mi si presentano sulle pagine del libro e sui sentieri della vita, coniugandoli tra loro, confrontandoli e portandoli ad una sintesi fattiva. Legna che ho scelto opportunamente nel bosco per accendere il fuoco della casa, parole che raccolgo dal libro per illuminare la mia mente.
Qualcosa di imprevedibile, negli ultimi decenni, è successo nella nostra vita di cittadini, ma, prima ancora, di studiosi, qualcosa che ha a che fare con la consapevolezza della fine della centralità culturale dell’università e della scuola, da una parte, e della sparizione della coscienza di classe, dall’altra. Una crisi forse irreversibile che fa parte di una più generale tragedia: la situazione politica attuale e l’impossibilità della realizzazione, comunque, di un “buon governo”. La constatazione che è ormai vano sperare di ricostruire in Italia un Progetto globale, scientifico ed umanistico. Poiché esiste un preciso disegno dietro questo voluto oscuramento della speranza e dell’intelligenza: il disegno di far controllare non solo la politica e l’economia del paese, ma anche l’organizzazione generale dei saperi, da un gruppo di persone politicamente orientate a destra o che, se di sinistra, non posseggono se non raramente una effettiva capacità o possibilità di contrasto. In questa fase storica si è proceduto, con la complicità di mezzi di informazione, a legittimare ogni forma di ignoranza. Ignoranza del passato (della storia) e del presente (del Reale): e dunque con dismissione dell’arma della critica (sociale e politica). Ma anche ignoranza del futuro, vale a dire della possibilità del cambiamento dello stato delle cose: una rete eversiva, che ha impegnato decenni per formarsi, dandosi alla fine forma istituzionale.
Questa immagine del mio “registro di classe” – sto parlando dello strumento che mi viene consegnato ogni anno per fare l’appello degli studenti (un certo numero di assenze preclude la possibilità di accedere all’esame) e che ogni anno viene fatto girare per l’aula per raccogliere le firme dei presenti . . .-, appoggiato sul piano di quella che dovrebbe essere la “cattedra” spiega più di ogni discorso la condizione avvilente di una Facoltà universitaria in Italia. Nella fattispecie mi riferisco alla Facoltà di Design dell’ateneo IUAV di Venezia, con sede staccata a Treviso. Ogni anno ho chiesto che il piano della cattedra venisse, quanto meno, ricoperto di carta.
Non vi è più studioso che non si accorga di quanto ormai sia difficile la trasmissione dei saperi scientifici ed umanistici, se non in ristrette e fortunate cerchie di sopravvissuti e negli ultimi luoghi di eccellenza. Un fatto concomitante e parallelo è avvenuto anche a livello più antropologico, che coinvolge la vita di tutti i giorni, dal momento che anche i saperi più immediati, quelli che si trasmettono direttamente dagli adulti ai giovani e che, in generale, appartengono ai riti educativi e ai vari atti di relazione sociale, sono stati fatti dimenticare in cambio di una reciproca irresponsabilità e di un globale disimpegno etico e morale: un comportamento che coinvolge padri e figli in un’omertà speculare fosca e insanabile. E che, di conseguenza, si rovescia nel rapporto acritico e accondiscendente che i giovani instaurano con l’istituzione e con lo Stato.