Globale

Globale e comunicazione visiva: in più parti del rizoma puntualizziamo la relazione che intercorre tra l’eccesso del visibile e la responsabilità della tecnica. Certo, la questione appare come un paradosso. Perché potremmo pensare che proprio grazie alla diffusione planetaria dei prodotti della tecnica, tutto il mondo si è reso visibile e ogni sua parte può aspirare ad un momento di celebrità, parafrasando Andy Warhol!

Il fatto è che, nonostante questa totale visibilità, gran parte del mondo è come invisibile. Ignorato, non ignoto! Il progresso promesso dalla tecnica non è un progresso comune a tutti i paesi del mondo e a tutti gli uomini, e ciò è visibile a tutti. Attenzione: visibile a tutti. Significa che ogni uomo, sia che egli abiti al di qua della povertà, dentro i territori della ricchezza, dentro i territori del benessere, sia che egli abiti al di là del confine della ricchezza, dentro i territori della povertà e della sopravvivenza, sa perfettamente il globale, è comunemente agito dal globale. Per questo motivo sarà sempre più difficile bere il tè nel deserto, come romanticamente ancora alcuni turisti sperano.

Ognuno ormai conosce tutto dell’altro, ma con un vantaggio asimmetrico. Solo uno dei due ne ricava profitto. Il povero può solo consumare i suoi occhi davanti alla televisione che lo riprende. Tutto il mondo è ormai trasparente, come dice Baudrillard; tutto il mondo è in drammatica totale visibilità.

Post Human

Immagine presente nel catalogo Post Human, 1992-93

Un’immagine, presente nel catalogo dell’importante mostra, curata, a suo tempo, da Jeffrey Deitch, Post Human (varie sedi in Europa, 1992-93, catalogo italiano Castello di Rivoli, Rivoli Torino), si presta ad un approfondimento interpretativo.
La televisione è arrivata in uno sperduto angolo del mondo, una savana, al confine del deserto. Il televisore, per essere visto in funzione, viene riparato all’interno di un locale; gli spettatori sono all’esterno. La luce del sole non si addice a quella artificiale. Cosa si sta guardando? Ecco, improvvisamente capiamo che il contenuto del programma è pressoché inessenziale. Le persone sono sedute o sdraiate per terra, composte, attente, dignitose; mi colpisce un bastone appoggiato alla parete della capanna di fango. Pastorizia ed elettronica. Ma la riflessione non può fermarsi al fenomeno: la domanda cruciale è la seguente. Cosa avverrebbe, nel mondo, a partire da questo angolo della terra deserta, se da qui partisse l’informazione? Se da questo come dagli infiniti punti, segnati dalla presenza di un televisore, la comunicazione si facesse improvvisamente interattiva, circolare, universale?

Se comprendiamo questo aspetto della comunicazione, che è un aspetto politico, capiamo finalmente il concetto stesso di globalità.

Unplugged. Art as the Scene of Global Conflict

tema della prossima manifestazione di Ars Electronica di Linz, Unplugged. Art as the Scene of Global Conflict

Unplugged. Art as the Scene of Global Conflict, è il tema della prossima manifestazione di Ars Electronica di Linz.
L’arte si sforza di trasformarsi in coscienza (del) globale: ma anch’essa deve produrre feed back incessante, riverifica implacabile del suo stato di necessità. Ma ciò non contraddice l’assunto iniziale della funzione dell’arte, che, come diciamo sin dalla copertina del sito, non vuole aver a che fare con la “comunicazione”? Per salvarsi, l’arte deve occupare i luoghi comunicati, i luoghi visibili, per produrre non dis-vertimento, ma dis-senso. Critica. Non, come abbiamo qui e lì ribadito, perché essa sia un gioco, ma perché essa giunga ad essere, di fatto, un sistema di pensiero, una disciplina che tende a spiegare il proprio irrazionale e la propria pulsione insieme desiderativa ed eversiva (comunque eversiva, anche se prende momentanee forme dell’ordine). Altrimenti perché farne facolta universitaria, tanto per metter un dito nella piega? Forse, però, qui, l’arte incontrerà il suo definitivo destino. Dovrà decidere la sua differenza rispetto alle accademie … La prima differenza di un’arte concepita come dimensione antiaccademica non può che essere segnata dal suo rapportarsi solo a dimensioni trasformate o trasformabili in discipline: disciplina tra le discipline, nodo precipuo di un rizoma di saperi, ma, nello stesso tempo, performance che attraversa l’intero rizoma come un sistema nervoso!

Naturalmente il globale si presta ad analisi eminentemente politiche, ma a noi interessa sviluppare l’aspetto culturale e artistico del fenomeno, dentro l’ambito della comunicazioni visive. La prima osservazione che viene naturale fare riguarda la proliferazione internazionale di mostre, e, ripetiamolo, la sua sempre più organizzata radicalizzazione universitaria, in un momento storico in cui, come abbiamo più volte detto, l’arte ha raggiunto il suo vanishing point, il suo punto di svanimento.

L’arte svanisce nello spettacolo globale! Al di là dello spettacolo (Au delá di Spectacle è, in effetti, il titolo di un’importante mostra curata da Philippe Vergne al Walker Art Center di Minneapolis nel 2001) cosa c’è? Al di la dello specchio delle nostre brame, cosa ci aspetta? Quale soluzione soddisferà il soggetto desiderante? Il melting pot (la mistura) o il salad bowl (insalata di composti ben differenziati) tra arte, politica, entertainment (strategie di divertimento), piacere può risolvere globalmente il problema del globale?

Quali i precedenti e quale la situazione attuale?
Il mondo, inteso come spettacolo globale, da cui non si sfugge, è dimensione allucinatoria indotta dalla tecnica, e in modo particolare dai media. Ad averne tracciato la storia e ad averne tentato di darvi una risposta analitica si sono provati (a farne una rapida sintesi), dapprima, il situazionismo, la filosofia inaugurata da Debord (1967 e 1988; vedi media), per il quale lo “spettacolo” è una dimensione negativa, da combattere, in forza ancora di un’utopia, quindi il simulazionismo, studiato da Baudrillard, negli anni Settanta, per il quale, di fronte al primato della tecnica, il fine ultimo dello spettacolo è la simulazione, capace di rendere viva, reale e “autentica” l’immagine: il simulacro, come abbiamo detto più volte, è vero, è immagine liberata da un’origine, che non deve più nulla al passato, alla tradizione, al “locale” … Infine, nel nostro tempo attuale, si configura l’ipotesi di una condizione di simultaneismo, di perdita persino del senso del tempo come durata, una dimensione ben nota ai navigatori in rete o, per meglio dire nell’infosfera: lo spazio di un’esperienza condivisa da più soggetti, che diffondono un’intelligenza collettiva. Questo neo-reale, come lo chiama il grande scrittore di fiction Philip K. Dick (ma si sappia che, per molti, Dick, come Gibson, Sterling, Clarke, Vonnegut o Pynchon, è un filosofo), coincide con la possibilità di ridefinire in termini positivi il globale?

Questo è davvero l’unico uso possibile di una comunicazione visiva sul globale da parte dell’arte: una funzione connettiva, che superi limiti, confini, barriere non per omologare, bensì per differenziare nell’unità transulturale e multiculturale ogni singolo recitativo, ogni singola voce. Oserei dire, persino, al di là delle qualità “formali” della specifica opera. Salto epocale, incredibile paradosso: che all’arte attuale non importi più tanto la bellezza della forma, e forse, per la prima volta nel contemporaneo, neppure la concettualità, ma innanzitutto la comunicazione. Tutte le grandi esposizioni attuali (da Kassel ad Istanbul, per farne una geografia europea) tendono ad andare in questa direzione, con grande fastidio degli amateurs, i quali hanno pure le loro ragioni … (nulla di più bello di una bella opera). Nella prossima Documenta di Kassel, per fare un esempio, l’opera del gruppo milanese di ricerca Multiplicity http://architettura.supereva.it/eventi/19990910.htm, (di cui fanno parte Stefano Boeri, Maddalena Bregani, Francisca Insulza, Francesco Jodice, Giovanni La Varra, John Palesimini, Paolo Vari e Maki Grezzi, che avevano realizzato la ricerca e l’esposizione USE – Uncertain states of Europe http://www.useproject.net/home.htm, consisterà in un allestimento in cui sarà presentata, “rappresentata”, la tragedia dei 283 immigrati clandestini annegati tra Portopalo e Malta la notte di Natale 1996.

È, dunque, più importante del fare arte la necessità del comunicare; per meglio dire: di comunicarci, e, per far ciò, vogliamo utilizzare qualsiasi mezzo, anche dell’arte, se necessario. Ciò è al di là del politico. Il salto è questo: dopo il politico creare comunicazione, rizoma, connessione, rete. Forse questa era/è la vera anima politica.

Il tessuto reticolare della realtà impone di porre l'attenzione alle peculiarità di ogni nodo della rete. Perché ogni nodo della rete assume connotazioni, valenze, prospettive diverse. Perché ogni nodo ha capacità strutturali e funzionali diverse. Potenzialità diverse. Quale, ancora, e dunque, la funzione di un artista, di un regista, di uno scrittore, soggetti che, assieme a tutte le altre figure interessate in attività creatrici, dovrebbero più correttamente essere chiamati con l’appellativo di brainworkers?

Quello che ci interessa sono storie di conflitti, intessute sui telai dell’epos e della mitopoiesi, storie che adottino i meccanismi e gli stilemi propri della narrativa di genere, dell'inchiesta militante o della microstoria

spiegano Roberto Bui, Giovanni Cattabriga, Luca Di Meo e Federico Guglielmi, membri del *Luther Blissett Project* nel quinquennio 1994-99 e autori del romanzo Q, i quali si sono dati come nome il marchio wu-ming, rappresentante di un collettivo di agitatori della scrittura, costituitosi in impresa indipendente di servizi narrativi con attività di raccordo tra letteratura e nuovi media. La figura dell'intellettuale separato dall'insieme della produzione sociale è, infatti, scomparsa da tempo. Oggi l'informazione è la più importante forza produttiva; quella che un tempo era l'industria culturale è in connessione dinamica con l’intera galassia delle merci e dei servizi. Non esiste più nulla che non sia multimediale (parola che suona già vecchia perché pleonastica), né ha più senso l’arcaica distinzione tra saperi tecnici e saperi umanistici.

Se facciamo un riscontro tra le principale tendenze “creative” attuali, dal romanzo, al cinema, ci accorgiamo che quasi tutte queste forme d’arte ormai attingano materia viva dalle zone d'ombra della storia collettiva e individuale, storie vere narrate come romanzi o films.

Soltanto una radicale verosimiglianza senza scrupoli è in grado di rimettere tutto in prospettiva.

Solo a seguito di queste considerazioni, è possibile riaprire il discorso del corpo, del corpo desiderante, che non perde il desiderio neppure se privato, ad un ad uno, dei suoi organi, sostituiti dalle protesi informatiche ed elettroniche (vedi cyborg).

La progressiva urbanizzazione del pianeta ci costringe a ripensare modelli, contenuti, significanti dell’arte, dal momento che il suo territorio “espositivo” è diventato indubbiamente globale, planetario. Un territorio che non solo non coincide più con quello della città, che fu la condizione obbligata del confronto, dello scontro, ma anche della visibilità dell’arte moderna fino alle ultime avanguardie degli anni Settanta, ma che non coincide già più neppure con il concetto di territorio materiale e fisico.

L’arte è diventata rizoma, in quanto mette in relazione e si mette in relazione. È parte della rete di comunicazione, in cui il visibile gioca un ruolo assolutamente inedito: rovesciando il pensiero moderno, che affermava la funzione poetica dell’arte essere quella di rendere visibile l’invisibile, potremmo dire che all’arte compete oggi il compito paradossale - piuttosto che generare mondi immaginari - di individuare nel reale la sua zona d’ombra, il suo rimosso, il suo lapsus. Scatenare il logos - e nulla è più pericolosamente e incontrollabilmente dionisiaco del logos - contro il logo!

Comunic.arti: il nostro gioco di parole qui esplode. Comunicare versus arte. Entrare in relazione rispetto al puro creare. Se creare sia, all’arte tutto il lavoro sul segreto, sul rimosso, sull’ignorato. Ma se comunicare sia, al comunicante qualsiasi strategia per raggiungere il suo fine, che è quello di accelerare universalmente la conoscenza, il conoscibile, il condiviso. Ripeto, usando anche dell’arte, se necessario. Questo l’aspetto positivo di un globale pensato dall’arte, che nulla a che fare con la colonizzazione del mondo da parte di una politica – come sostiene il filosofo Emanuele Severino - che si serve della tecnica per salvarsi.