Il paradosso del cyborg
La parola inglese cyborg (cyb.+org.) è composta di due termini, cibernetica e organismo. Ambedue derivano dal greco; il primo da kybernàn, che significa governare una nave, pilotare; il secondo, da órganon, che voleva dire “strumento”, a sua volta da una radice indoeuropea érgon, “lavoro”.
Nel 1947 lo scienziato americano Norbert Wiener inventa l’espressione cybernetics per indicare la capacità delle macchine di autoregolarsi, vale a dire di poter comunicare tra loro.
Naturalmente era molto lontano il sospetto che le macchine avrebbero potuto anche comunicare l’una con l’altra senza l’intervento umano.
In alcuni artisti attuali, in Stelarc in maniera precipua,, infatti, vediamo simbolicamente concretizzarsi una delle invenzioni più estreme della fiction, quel connubio tra corpo umano e macchina, quell’organismo cibernetico, da lungo tempo profetizzato dalla letteratura, e a cui, nel 1960, due ricercatori medici di New York, Manfred Clynes e Nathan Kline, impegnati a studiare l’adattamento umano nello spazio extraterrestre, avevano dato il nome di cyborg.
Cyborg significa, dunque, organismo cibernetico, un organismo composto di carne e tecnologia, per una parte biologico e per l’altra meccanico ed elettronico. Un altro neologismo per descrivere questo nuovo corpo è bionico, termine che sottolinea l’incrocio di biologia ed elettronica.
In effetti, nessuno di noi (attenzione a queste generalizzazioni: siamo proprio sicuri che stiamo parlando di un uomo simbolicamente e statisticamente rappresentativo di tutta l’umanità sulla terra? L’uomo del Bangladesh vi è contemplato?) può più fare a meno delle innumerevoli protesi hardware e software che ci accompagnano, ci circondano e ci attraversano.
Potremmo dire che tutti noi (gran parte …) siamo già dei mutanti, con caratteristiche bioniche ovvero cibernetiche!
Potremmo essere tentati di collegare il fenomeno cyborg con il primo modello letterario di organismo artificiale, Victor Frankenstein, creato da Mary Shelley nel 1818. La questione è più complessa. L’ha messo in luce in maniera lucidissima Donna Haraway nel suo Manifesto for Cyborgs (1985; Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano 1995).
Diversamente dal mostro di Frankenstein, il cyborg non si aspetta che il padre lo salvi ripristinando il giardino, cioè fabbricandogli un compagno eterosessuale, corredato da un tutto finito, città e cosmo. Il cyborg non sogna una comunità costruita sul modello della famiglia organica. Il cyborg non riconoscerebbe il giardino dell’Eden: non è nato dal fango e non può pensare di ritornare polvere
(pag. 42).
Il cyborg è un simulacro, che, come abbiamo detto, significa l’uno, il simulacro (vedi simulacro). Come tale non ha nostalgie della sua preistoria, lui stesso, sorgendo, costruisce il suo mito: un mito spinto non alla ricerca del passato, ma a quella del futuro.
Un altro punto molto importante del ragionamento della Haraway, che ci permette di avanzare delle ulteriori ipotesi personali, concerne la falsa distinzione tra organismo e macchina. Le macchine pre-cibernetiche potevano essere ambigue, poiché fondate teoreticamente sulla contrapposizione tra materialismo e idealismo, tra naturale e artificiale, tra spirito e carne, ma le macchine cibernetiche hanno contribuito a rendere così difficile la distinzione tra queste coppie, un tempo giustamente dialettiche, da determinare una dimensione del tutto inedita anche per coloro che ne seguono le vicende.
La macchina attuale non ha ambienti, è ambiente, non ha architettura, è architettura: il suo “essere” consiste in un microcosmo in scala molecolare, disturbato solo dal rumore atomico, interferenza estrema del nucleare. È con questa scala, su questa dimensione al di là del visibile, che il cyborg, ubiquo e quantunque invisibile, muove la sua esistenza, la sua ontologica realtà.
La mia utopia è che, se non vince la tecnica, vince il cyborg, l’unità indivisibile alla base di ogni "essente", un tempo definito creatura o vivente. Essente è ciò che esiste, organico ed inorganico, uomo, natura e macchina, corpo e mente, calcolo e poesia. L’unità davvero politica è la condivisione del cyborg da parte di tutto ciò che esiste.
Paradosso. Per sopravvivere il cyborg deve essere oltre la tecnica (se la tecnica minaccia di distruggere il mondo, come alcuni scienziati ipotizzano, nell’arco breve di pochi decenni), vale a dire essere rifondativi di una nuova scala di valori e di nuovi modelli produttivi e sociali (dove per societas s’intenda l’insieme degli esistenti, non solo dei viventi).
Dalla scultura al cyborg
La storia del creare corpi che assomigliano all’umano e che, in un modo o nell’altro, poeticamente, simbolicamente, fantascientificamente, lo possano sostituire nel bene o nel male nasce forse con la realizzazione della prima forma tridimensionale, detta scultura. Non a caso l’arte della scultura possiede una mitologia fondativa, che val la pena di ricordare.
Il lavoro dello scultore, basato sulla materia, sul corpo, sul malleabile, possiede come fine estremo quello di trasformare la forma inanimata in qualcosa che può, con repentina sorpresa e con improvviso sgomento, ani marsi e vivere. Sembra un paradosso, ma l’origine della scultura è strettamente legata all’idea della vita e del movimento, piuttosto che alla monumentalità e alla memoria. Paura e desiderio di vedere apparire la vita costituiscono i poli di un’eterna tensione scopica: perché non parli? - chiede lo scultore, fissando l’opera appena eseguita, nel silenzioso abbandono degli strumenti che avevano saputo estrarre la figura celata nel cuore segreto e cristallifero della montagna ...
Dedalo è il primo architetto-scultore a possedere tali qualità magiche; le sue capacità gli vengono riconosciute da Aristotele, che lo descrive capace di realizzare sculture che sembrano vive. Tiodaro narra, più dettagliatamente, che Dedalo era riuscito a creare il miracolo: "simili ad esseri umani, le sue statue guardavano e camminavano, avendole, per primo, fornite di occhi".
É lo sguardo, infatti, che immette la vita nella statua, permettendole di muoversi tra gli uomini per osservarli ed interrogarli! Questo il salto sorprendente: non per essere vista, ma per guardare! L'eterna immobilità della sfinge si scuote solo quando vede davanti a sé un vero possibile interlocutore, Edipo, che, infatti, saprà tener testa alla sua sfida. Edipo, a cui gli dei hanno attribuito un’in telligenza estrema per quanto riguarda l'interpretazione del mondo, dimostrerà una totale cecità per quanto riguarda il suo personale destino.
Accanto alla figura di Dedalo il mito greco affianca quella di Efesto, il divino fabbro mostruoso, che secondo Omero si muoveva, zoppicante, nella sua fucina-laboratorio sorretto da due ancelle d'oro, da lui stesso forgiate, che erano del tutto simili a due veri corpi viventi.
Mago ma deforme, Efesto è penalizzato dal mito perché la cultura classica con cepiva le attività artigiane ed artistiche come sedentarie e quindi riservate a chi non poteva andare in guerra, lavorare in agricoltura e andare a caccia.
Separazione già nell'ambito del mito tra colui che produce opere ed oggetti defunzionalizzati e chi produce invece strumenti per il lavoro, strumenti per una funzione!
Dedalo commetterà, infatti, un terribile omicidio, uccidendo il suo disce polo prediletto, Talo, perché aveva inventato un oggetto rivoluzionario, il compasso, e l'invenzione improvvisa di qualcosa che prima non esisteva non deve e non può appartenere all'inventore di funzioni ma soltanto all'artista. Dedalo uccide Talo perché la tecnica dell'artigiano, che produce solo utensili e stru menti, può svilupparsi solo per progressivi adattamenti degli og getti stessi a quella continuità d'uso che permette di aumentarne il rendimento diminuendo la fatica, mentre Talo commette l'errore di inventare dal nulla qualcosa di rivoluzionario.
Talo verrà, tuttavia, riscattato; la nemesi del suo riscatto appartiene ad un altro mito, che lo trasformerà in pernice, nell'uccello dal volo cir colare, simbolo di destino aereo, altitudinale, rivoluzionario nel senso proprio di una circolarità evolutiva, che riporta sempre ad un punto zero iniziale quell'avanguardia che, caparbiamente, produce invenzioni sosp ese, sottratte alla gravità del quotidiano, slegate dall’uso terreno ...
Umano-postumano-extraterrestre
Una delle più esaurienti definizioni del cosiddetto ciberspazio (termine coniato da William Gibson in un fortunato romanzo fanta scientifico, Neuromancer, 1984) è quella of ferta da Michael Benedikt, uno dei più noti studiosi e ricercatori informatici: una realtà artificiale, multidi mensionale, generata dal com puter e resa accessibile attraverso una rete globale di controllo, che esprime il massimo raggiungimento attuale della tecnologia informatica
.
Niente può tuttavia uguagliare in immediatezza concettuale lo splendido incipit del romanzo di Gibson: Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.
Solo dentro questo orizzonte ormai totalmente artificiale è possibile pensare il cyborg: esso ne è l’abitatore privilegiato. Dobbiamo partire da questo assunto: il nostro mondo è come quel porto immobilizzato iconograficamente e trasformato in pura energia immateriale.
L’infinita produzione cyberpunk in letteratura e in cinema (una buona informazione in "Segno Cinema", 59, 1993 e in "Cineforum" 7/8, 1991) ne fa cronaca dal futuro; questa dimensione, proprio da un fortunato neologismo inventato da William Gibson, potremmo chiamarla simstim (da simulated stimula, stimoli, emozioni simulative): uno spazio iconico navigabile dall’utente.
In uno scritto recente, Stelarc parla, per l’appunto, di una sorta di condizione post-storica, trans-umana ed extra-terrestre, per indicare la dimensione culturale nella quale le sue performance vanno intese: il tentativo di superare, in ogni direzione, quelli che possono essere considerati i limiti fisici del corpo, lo sforzo di superare quel limite che è il corpo.
Un superamento, che non avviene più mediante un viaggio spirituale e interiore (quel viaggio verso l’astrazione, inaugurato da Kandinskij negli anni ‘10), ma abbandonando ogni metafisica e tentando una riprogettazione globale, antimetafisica e, nello stesso tempo, antinaturalistica, del soggetto.
Proprio esaminando quest’esperimento estremo, rappresentato dalla chimera tecnologica di Stelarc, appare chiaro quanto distante ormai sia l’orizzonte della modernità da questo sentire, che tende a collocarsi al di fuori di ogni possibile tradizione e dunque dentro una nuova visione del mondo.
Prende forma, nell’esperimento di Stelarc, un progetto di sopravvivenza bio-tecnologica, che vuole sconfiggere la centralità cruciale della figura della morte, in quanto la morte è, tradizionalmente, il luogo nel quale trovano unione e giustificazione reciproca la metafisica, la religione e la biologia.
Se nella cultura dell’umanità il confine estremo della vita si traduce sempre e comunque in sentimento, emozione e tremore del nulla o del dio, semantizzando il limite dell’esistenza come confine della morte, la concezione post-umana, testimoniata da Stelarc, disegna su questo bordo fatale una linea frattale, in cui le differenze tra la vita e la morte non sono più così definite: il corpo non è più quel luogo che biologia, metafisica e religione concordano a dichiarare come luogo di morte, anzi, come il luogo della morte, ma come una nuova dimensione nella quale il corpo, unito alla macchina (di calcolo …), e divenuto così un insieme di parti organiche e di parti inorganiche, che si trasmettono reciprocamente informazioni ed impulsi vitali, tende ad evolvere verso la costruzione di un superorganismo bionico, che non potrà mai diventare definitivamente cadavere, ma solo un’entità continuamente variante.
Per questo aspetto della morte del corpo, come condizione disgiuntiva immanente alla vita, e al corpo, come luogo costante della morte, su cui tutto il sapere scientifico tradizionale converge e prende forma, si veda il contributo fondamentale di Umberto Galimberti, Il corpo (Feltrinelli, Milano 1983).
Il corpo bionico di Stelarc rappresenta il punto d’incontro di due vettori concettuali diversi, l’inverarsi della profezia letteraria del romanzo ottocentesco e il perfetto realizzarsi dell’effetto futuro nell’esperienza del quotidiano tecnologico. Qui davvero la fiction si fa, da pensiero filosofico, testimonianza fisica, concretizzandosi nell’uomo mutante, esattamente come era stato preannunciato, nella poesia, dallo splendido poema lucreziano di Raymond Queneau, Piccola cosmogonia portatile (1950; Einaudi, Torino, 1982 e 1988; magistralmente introdotto da Italo Calvino, il poema di Raymond Queneau ripercorre le linee della metamorfosi progressiva dell’uomo, dal suo discendere da un ramo parallelo a quello delle scimmie, al suo diventare parte di una macchina, per trasformarsi, alla fine, in un’entità inorganica), e come viene oggi ampiamente analizzato da tutta una serie di testi, l’ultimo dei quali, scritto da Robert Clarke, traccia il percorso dell’irreversibile alterazione della struttura fisica e mentale dell’uomo contemporaneo.
Robert Clarke, L’uomo mutante, Sperling & Kufler, Milano, 1995. Il libro è uscito, per una coincidenza non marginale proprio nei giorni della prima ed unica performance di Stelarc in Italia, curata a Padova da Ernesto L. Francalanci, nell’ambito della mostra Oltre la scultura, Biennale di Padova, 1995). Molto giustamente, una puntuale recensione del libro, apparsa sul numero di Le Scienze, 328, dicembre 1995, pagine 108-110, a cura di Fabio Feminò, faceva rilevare, indicando degli esempi, come, in quest’ambito di tematiche, l’editoria italiana si sia dimostrata particolarmente disattenta e imperdonabilmente in ritardo rispetto alle pubblicazioni estere
Se osserviamo la performance di Stelarc sullo sfondo della scena complessa dell’attuale produzione tecnologica, piuttosto che su quello della storia diacronica dell’arte, il corpo bionico ci apparirà assolutamente coerente all’insieme delle trasformazioni e delle innovazioni più sintomatiche del nostro tempo: una riflessione, a mio giudizio, non priva di conseguenze nell’ordine di una rielaborazione dei giudizi estetici dell’opera d’arte contemporanea, non più interpretabile come un atto di messa in crisi dei postulati della certezza, ma come uno strumento asseverativo dello stato di fatto, non più opera come enigma che interroga il nostro immaginario, ma opera come dimostrazione e risposta dell’immaginario realizzato. Opera come inveramento del fantastico e come appagamento del desiderio e dunque come esibizione totale del suo meccanismo attrattivo.
La cifra connotativa dell’esperienza e dello spettacolo di Stelarc consiste per l’appunto in questo inveramento, che riporta all’interno di una scena fisica e non virtuale l’esplorazione estetica intesa come scelta non più ottica, ma aptica (vale a dire sensoriale, di contatto, e quindi passionale e attiva), fatta di intimità e densità, di tangibilità e di tattilità: il cyborg emerge al mondo grazie alla doppia materialità dei suoi corpi, emerge al sensibile in un sentire che è letteralmente comunione e coesistenza di due percezioni e di due reattività, che innanzitutto reciprocamente si specchiano e si interrogano.
La conferma sta nella danza con la quale il corpo biologico saluta la scarica elettrica che il computer immette nella sua carne attraverso una selva di fili e di elettrodi, una danza tribale, orgiastica e shivaistaica. Nello stesso tempo, tuttavia, lo spasmo involontario dei muscoli richiama la parte consapevole del corpo alla risposta, alla “relazione” e dunque alla “reazione“: un moto reattivo, che ricorda al calcolatore, alla macchina immateriale, la persistenza, ancora per un certo periodo, della sua componente mortale, vale a dire della sua transitoria fisicità.
teatrale, avendo Antunez, per altro, fatto parte dei principali gruppi del teatro contemporaneo spagnolo, a partire dalla Fura dels Baus, di cui è membro fondatore, un gruppo che, a sua volta, si è mosso nella direzione di trasformare la sia pure affascinante idea di teatro totale in quella, ancor più provocatoria, di teatro digitale interattivo, mantenendo tuttavia riferimenti profondi alla cultura del teatro della crudeltà e dell’assurdo, ad Artaud e agli happenings degli anni sessanta e settanta. Antunez presenta uno spettacolo, intitolato Epizoo, che crea contraddizioni parodistiche: da una parte un corpo, che si lascia deformare e colpire, novello martire del paganesimo elettronico, dall’altra un’interfaccia grafica, ambiguamente ironica, dall’altra ancora, un interlocutore, un perfetto voyeur, che, sadisticamente (proprio nell’esatto trapasso epocale tra un de Sade, che usava solo la parola, e un regista odierno, che usa solo le immagini), usa del corpo virtuale a suo piacimento. Fine dei contatti diretti, fine delle relazioni carnali: il tatto è divenuto anch’esso digitale. Ma, per questo tatto, occorre un tatto molto particolare, regolato da un galateo elettronico.
Né meditazioni, né medicazioni.
Stelarc è contemporaneamente una scultura vivente e un terminale elettrico. Come scultura vivente è un corpo composto di carne, di plastica, di metallo. É vivo e morto nello stesso momento: è morto (epocalmente, s’intende) come corpo biologico - è lui stesso a dichiararlo ("il corpo è finito!") - ed è vivo quando si fa attraversare dalla corrente elettrica e quando trasferisce all’immortalità del digitale la sua avatara.
Stelarc, dichiarando di non fare uso neither of meditations or medications, né di meditazioni né di medicazioni, nel corso delle sue performances estreme - sia quando si appende a macchine sollevatrici con ganci che artigliano la pelle, sia quando introduce nello stomaco un robot televisivo, sia quando si fa agire da un computer, collegandosi ad esso mediante degli elettrodi - mette in evidenza, attraverso questo bruciante gioco di omofonie (la meditazione essendo essa null’altro, alla fine, che una sorta di medicazione interna ...), come il corpo attuale sia tendenzialmente sempre più lontano dalla necessità delle cure interne dell’anima e a quelle esterne della medicina, l’anima essendo stata sostituita dall’interesse per la mente e la medicina curativa dalla chirurgia sostitutiva o dalla biogenetica. Nello stesso tempo, la dichiarazione di Stelarc esprime il sentimento di un individuo completamente consapevole di una mutazione che sta avvenendo attorno e dentro di lui, e che è di tale vastità da rendere ormai completamente inefficiente il ricorso alle antiche formule di salvezza: né a quelle che curano l’anima, né a quelle che curano il corpo.
Per dare senso a questo pensiero e a questo corpo occorrono altri mezzi e altre strategie, forse anche altre filosofie.
Se guardiamo allo sviluppo dell’arte moderna, assistiamo al verificarsi di un singolare paradosso, che concerne l’esito dell’utopia, proposta dalle avanguardie storiche, della coincidenza dell’arte con la vita.
Credo che Stelarc non reciti, così come altri "artisti" della scena contemporanea, la parte dell’uomo mutante, ma performance viva effettivamente l’esperienza di una metamorfosi antropologica, che sta producendo effetti non tanto nella dimensione estetica dell’arte, quanto, molto più estesi e rizomatici, in quella della comunicazione esistenziale: "artisti", dunque, che utilizzano anche l’arte per comunicare, essendo la comunicazione tra i soggetti, oggi, il grande tema da rilanciare e da risolvere di fronte alla progressiva saturazione planetaria delle informazioni.
Per questo motivo Stelarc espone, nello spettacolo, ancora la propria parte organica, vale a dire il proprio fisico, che, del corpo tecnologico, costituisce sì la parte residuale e, per molti aspetti, obsoleta e inaffidabile, ma anche una componente imprevedibile e, paradossalmente, più misteriosa.
Se Stelarc, da una parte, performance,ormai storiche, va affronta il significato profondo di un’estetica della mutazione, un virus dal quale nessuno può ritenersi indenne, dall’altra enuncia la necessità di creare nuove forme di vita integrata, una vita che ibrida e fonde insieme, senza più alcuna schisi, l’intelligenza naturale con quella artificiale: il corpo post-umano ospiterà nanotecnologie e sarà, sua volta, ospitato da macchine robotiche, mentre circuiti digitali si affiancheranno a quelli neuronici, superando sia il confine determinato dal codice genetico sia la conseguente fisiologia biologica.
Stelarc, dunque, angelo annunciatore. Una delle performance più potenti realizzate dall’artista è quella della sospensione, a svariate decine di metri di altezza, mediante cavi che si agganciano direttamente alla pelle, angelo attaccato al braccio della gru, che egli stesso comanda con i suoi sensori elettronici.....
Le sue performance lo spostano incessantemente da una parte all’altra del pianeta, lasciando ovunque una traccia indelebile e inquietante del suo passaggio: la sensazione nello spettatore di aver vissuto un’esperienza del futuro e di aver avuto un contatto ravvicinato con un essere alieno, nel quale scopre i tratti inconsci e inconfondibili della sua stessa inarrestabile metamorfosi.
Pare, a mio giudizio, importante cogliere, dunque, come la performance tecnologica di Stelarc metta sempre in scena la relazione tra due corpi, sia che si tratti dell’inserimento di una piccola scultura meccanica, un micro robot televisivo, all’interno dello stomaco (il concetto è quello, non solo, di rappresentare altri paesaggi, come quelli, intuiti da Cronenberg (nel film The Dead Ringers), che appartengono agli organi interni del corpo, ma di usare un organo, per la prima volta, come effettivo contenitore di un’opera d’arte... ), sia che il proprio corpo si colleghi passivamente al computer, attraverso comandi lanciati via modem, in collegamento Internet, sia che sia esso stesso ad attivare delle protesi articolari, come la celebre terza mano, squisita metafora di una nuova manualità tecnologica, sia che produca un clone virtuale, che ripete tutti i movimenti del corpo reale.
Performance, la fredda inorganicità della macchina, l’organismo plastica forza composte da corpi doppii,, sostituiscono quelli che le sfingi.
Fractal Flesh
Se negli anni settanta era in questione soprattutto il rapporto tra l’arte e la vita, e, nel fatto specifico, la relazione comunicativa che si stabiliva tra l’artista e lo spettatore (celebre la performance della Abramovic e di Ulay, che, appoggiati nudi agli stipiti di una stretta porta, obbligavano gli spettatori a passare tra di loro; Bologna, Galleria d’Arte Moderna, 1977; a cura di Renato Barilli; vedi corpo), oggi una tensione altrettanto forte e significativa può, dunque, scaturire dal confronto tra corpo umano e corpo della macchina, e, in senso più vasto, tra biologia e tecnologia. A guardia della soglia attuale, situata tra la condizione umana e la mutazione post-human, sono collocati oggi, attendendo il nostro passaggio, la scultura di carne e quella di silicio, il corpo fisico e quello tecnologico.
Se, proprio negli anni settanta, Stelarc si faceva sospendere sul vuoto, in una performance intitolata Evento per pelle in tensione (1977), mediante dei fili agganciati alla pelle, negli anni novanta, a trasportare il corpo dell’artista al di là della sua fisiologia, è l’insieme delle connessioni tecnologiche, che si innestano biologicamente all’interno del corpo stesso, trasformandolo irreversibilmente in un nuovo organismo ibrido: un cybercorpo.
Questo nuovo organismo, irto di elettrodi, di antenne, di laser, di circuiti, diventa così un corpo amplificato, un sistema esteso, potenziato, capace di realizzare il primo passo verso la definitiva entrata in una dimensione artificiale post-umana. In Fractal Flesh (1995), Stelarc mette a disposizione il suo corpo mutante, i suoi sistemi potenzianti, la sua terza mano, per lasciarsi manipolare da uno spettatore attraverso un computer: la macchina mutante coinvolge e trasforma, in un fulminante corto circuito, il suo stesso pubblico in un’interfaccia della mutazione. Con Stelarc, l’uomo dà corpo ad un secolare sogno di potenza: farsi sostanza immateriale, e dunque finalmente immortale.
Una volta definiti, dopo le prime performance, i limiti e le possibilità del proprio corpo, Stelarc ha proceduto a sviluppare strategie sempre più sofisticate per collegarsi più profondamente con l’intelligenza del computer e con la parte materiale della macchina tecnologica.
Gli esperimenti con il terzo braccio meccanico porteranno, infatti, tra il 1992 e il 1993, ad un’evoluzione tecnologica, il cosiddetto "braccio virtuale", consistente in un programma elettronico che permette ai movimenti del braccio meccanico di generare immagini dinamiche sullo schermo di un computer.
Stelarc giungerà a realizzare, nel proseguirsi delle ricerche, una riproduzione virtuale del proprio corpo in modo tale che ogni movimento di quello fisico venga, sullo schermo del computer, simultaneamente riprodotto. Il passaggio ulteriore consisterà nella possibilità, da parte di un qualsiasi utilizzatore di Internet, di inviare dei segnali elettronici direttamente al corpo di Stelarc, collegato mediante opportuni elettrodi al computer stesso e quindi anche a tutti gli altri computer connessi in rete. Ogni comando elettronico si tramuta, così, in un impulso elettrico, che, grazie ad elettrodi innestati nei muscoli, provocherà una serie di movimenti automatici; ne consegue una sorta di danza involontaria, a mala pena controllabile da parte dell’artista.
La performance si fa, così, definitivamente interattiva, poiché ognuno di noi può muovere a suo piacimento il corpo di Stelarc, che appare, sulla scena e sullo schermo del computer, letteralmente coperto di fili e di cavi, il che lo rende una figura assolutamente inusitata sulla scena dell’arte.
Nello stesso tempo, gli stessi movimenti di questa danza elettronica, di grande drammaticità, vengono convertiti in suoni grazie ad un’ulteriore interfaccia. Lo spettacolo dura all’incirca un’ora ed è seguibile, in ogni suo particolare, su un maxischermo, che sta alle spalle dell’artista, e su cui compare la sua immagine simulata (che Stelarc definisce avatara, una parola orientale che significa fantasma, apparizione, incarnazione).
L’incontro tra la fredda inorganicità della macchina protesica e la calda resistenza dell’organismo fisico produce una fusione plastica di enorme suggestione, che fa dell’artista una specie di mitologica chimera (la chimera era un leggendario animale composto di più specie biologiche), ma di tipo antropo-tecnico. Nell’Olimpo del nostro attuale immaginario, i robot, gli androidi e i cyborg sostituiscono, infatti, quelli che, nei tempi dell’antichità, erano stati i centauri, le sfingi o gli angeli.
Se, da una parte, Stelarc sottolinea il dominio della tecnica ed enfatizza i caratteri più appariscenti dell’innesto inorganico, mettendo in evidenza il legame che unisce muscoli ed elettricità, cervello umano e cervello elettronico, dall’altra evidenzia anche la propria nudità, la propria fragilità biologica, la propria "obsolesenza".
Stelarc afferma che proprio quest’obsolescenza rapida del nostro corpo ci impone di superare l’evoluzione lenta della specie non attraverso manipolazioni genetiche, che esulano al momento dai suoi interessi e dalla sua fantasia, bensì mediante pratiche di ibridazione sempre più accelerate fra corpo e macchina.
Il feticcio
Non sono ancora apparse delle analisi che abbiano approfondito il significato simbolico e psicologico del terzo braccio di Stelarc.
Un approccio di carattere freudiano potrebbe interpretare il braccio meccanico, innestato sul corpo di Stelarc, non tanto come una parte aggiuntiva del corpo, ma, al contrario, come una parte sottratta alla macchina, una sineddoche, una parte per il tutto, di quella mutazione tecnologica che costituisce l’ossessione di Stelarc.
Il braccio rappresenta, dunque, una parte che, attraverso un "processo di negazione", si mette in relazione con l’universo della macchina, intesa nella sua totalità, nella sua completezza e nella sua ideale perfezione. Fantasma tecnologico. La macchina è infatti l’oggetto assente e il braccio protesico nient’altro è che un suo sostituto parziale, profondamente simbolico.
Se nell’analisi freudiana la paura della mancanza del pene nella madre produce nel bambino l’angoscia dell’assenza, che si tramuta nel sentimento di castrazione, analogamente, nel nostro caso, Stelarc proietta sul terzo braccio l’angoscia dell’assenza della macchina, o, quanto meno, l’angoscia provocata dall’imperfetta mutazione nella forma completa della macchina, di cui proprio il pezzo protetico dichiara l’incompletezza.
Visto dalla parte della macchina, infatti, il terzo braccio appare come un arto mozzato.
Visto dalla parte dell’umano, esso appare, invece, come un frammento, un principio di fusione tra due entità differenti, non riuscito. Il mito della mutazione, che non riesce ad essere compiutamente raggiunta al protagonista, Brandle, della terribile metamorfosi cronenberghiana di The Fly (USA 1986), rivive nella schisi spettacolare proposta da Stelarc.
La rappresentazione sacra, messa in scena da Stelarc, fa recitare al terzo braccio lo scontro impacificabile tra l’organico e l’inorganico, tra il naturale e l’artificiale.
Tra il non-finito della macchina, la quale comincia a manifestare una sensorialità incompleta, e il troppo finito, il troppo umano, dell’umano, il quale dimostra un sentire che si fa sempre più neutrale, appare questo organismo doppio, questo arto ambiguo, che appartiene all’uomo come innesto, e che appartiene alla macchina come frammento.
In questa tensione irrisolta, nessuno dei due corpi, quello naturale e quello artificiale, si tramuta nell’altro, ma ambedue producono un fantasma intermedio, che appartiene all’uno e all’altro, fondendo due desideri confluenti nella medesima articolazione.
L’ingranaggio dei due desideri mette in funzione i due corpi, quello presente dell’umano e quello assente della macchina. Infatti l’assenza della macchina è data dalla sua e(s)ternità rispetto all’organico, è data dalla sua ancora inconoscibilità come elemento o insieme di elementi che non appartengono al corpo biologico, entità che si avvicina a noi solo perché possiede un analogo sentire, continuando tuttavia a possedere una forma invisibile.
Come il bambino freudiano continua a credere nel pene della madre, derivandogli quella sicurezza che gli permetterà di continuare a relazionarsi con lei, trasformando il fantasma del pene in un feticcio, così l’umano continua a credere nella sessualità della macchina, perché il suo sogno, anzi il suo progetto, è quello di congiungersi fisicamente con essa, non volendo accettare l’idea che ormai la macchina può vivere perfettamente anche senza di lui.
Stelarc, The Third Hand
Stelarc, The Third Hand
The Third Hand di Stelarc non è, dunque, che una delle possibili concretizzazioni di questo sogno, un sogno che comincia a concretizzarsi alla metà dell’Ottocento, quando, grazie agli studi del fisiologo tedesco Emil Heinrich Du Bois-Reymond sulla natura elettrica dei segnali trasmessi dal sistema nervoso umano, vengono fatti i primo esperimenti (1849) di collegamento elettrico tra il corpo umano e uno strumento meccanico, per l’esattezza un galvanometro, un apparecchio di misurazione della tensione. Du Bois-Reymond, essendosi accorto che i collegamenti fatti dall’epidermide allo strumento non assicuravano un buon passaggio di elettricità, si era asportato la pelle in vari punti delle braccia, ed aveva inserito gli elettrodi direttamente nella carne viva (Una fondamentale presentazione delle ricerche, che vedono gli stessi autori in primo piano, sul collegamento tra segnali elettrici emessi dal corpo e macchine anche di tipo informatico, è stata fatta da Hugh S.Lusted e R. Benjamin Knapp, Comandare i calcolatori con segnali nervosi, Le Scienze,n. 340, dicembre 1996, pp. 66-72).
L’esperimento di Du Bois-Reymond va interpretato come l’avvio di quelle ricerche di comunicazione tra l’uomo e la macchina, in questo caso il calcolatore, che si avvalgono di un possibile collegamento nervoso versatile tra cervello umano e cervello elettronico.
I segnali emessi dai muscoli, opportunamente amplificati attraverso circuiti elettronici di grande sensibilità, permettono ormai da tempo, per lo meno dagli anni settanta, di realizzzare delle protesi meccaniche messe in funzione da segnali provocati da opportune contrazioni muscolari.
Recentemente, scienziati come Hugh S. Lusted e R. Benjamin Knapp, hanno dimostrato che è ormai possibile pervenire allo sfruttamento delle onde cerebrali, in modo particolare quelle alfa - dall’ampiezza piuttosto grande e dalla frequenza abbastanza moderata -, per produrre apprezzabili risposte da parte del computer.
L’interfaccia tra il calcolatore e i vari segnali elettrici, prodotti dalle onde cerebrali, è per il momento una sorta di interruttore elettronico a onde alfa, chiamato Biomuse dai due inventori; esiste un secondo tipo di apparecchiatura, sempre realizzata dagli autori, che permette di rilevare la stessa attività di potenziale evocato dal cervello.
Il cyborg è, di fatto, un’esistenza neuronale e silicica, sintesi e fusione di intelligenza naturale e intelligenza artificiale.