Logo

Il logo è l’estremizzazione della comunicazione visiva, anzi la traduzione di ogni merce in immagine, in pura, astratta forma: smaterializzazione della merce ponderale e ricreazione di una merce comportamentale, filosofica e metafisica.
In "globale" abbiamo detto: "scatenare il logos - e nulla è più pericolosamente e incontrollabilmente dionisiaco del logos - contro il logo"!
La logica impone, infatti, di ricontrollare con molta durezza il rapporto tra il corpo (del soggetto e del sociale!) e la globalizzazione.
L’interfaccia che rende il rapporto qualcosa di "metafisico" è il logo! Il logo non appartiene né al soggetto, né al sociale: esso appartiene allo spirito del capitalismo e delle merci.
Conoscere la rete globale dei loghi significa capire la rete globale della trasformazione capitalistica del mondo, da qualunque parte "politica" si voglia osservare il fenomeno.

Ovviamente il riferimento a Naomi Klein è immediato. Il suo libro (No logo, 2000; tr. it. Baldini & Castoldi, Milano 20001) è giustamente un cult internazionale. Nessuno riesce a trovarvi un difetto … logico, anche se l’opinione del lettore è talvolta di parte avversa!
L’incipit è straordinario: Sto scrivendo questo libro dal (si noti questo grammaticalmente improbabile "dal": preposizione di moto da luogo! Finalità della scrittura, altro che intimistica, qui si tratta di sottolineare la partenza di un’informazione…) mio appartamento in uno stabile di dieci piani situato in un quartiere fantasma di Toronto, dove un tempo si svolgeva la produzione tessile. Da allora molti di quegli edifici sono stati sprangati, le vetrate fracassate, i polmoni delle ciminiere chiusi: oggi la loro unica funzione capitalistica è quella di ospitare sui tetti incatramati grandi tabelloni pubblicitari a luci intermittenti che ricordano agli automobilisti, bloccati nel traffico della superstrada lungo il lago, l’esistenza della birra Molson, delle automobili Hyundai e dell’EZ Rock FM (pag. 13).

Passaggio obbligato per capire meglio cosa sia il logo è il momento storico, nell’Ottocento, della trasformazione del prodotto industriale in merce estetica.
Nel volgere di pochissimo tempo, tutto il futuro, di cui noi oggi viviamo la fase post-industriale, è come se fosse stato organizzato metodicamente, come in una sorta di progetto globale, di Gesamtkunstwerk, in onore della tecnica e della sua evoluzione, alla metà dell’Ottocento.
Quest’enorme fermento di idee e di produzioni, questa cultura così potentemente concreta e industriale, così tecnologicamente avanzata, che non si arresta né davanti alle barricate di Parigi del ‘48, né a quelle di Dresda del ‘49, non trova riscontro e neppure citazione nelle arti figurative contemporanee: né il realismo di Courbet (in quegli stessi anni Courbet dipinge opere come Gli spaccapietre o Lo studio del pittore), né la Confraternita preraffaellita (fondata nel 1848), né la pittura pre-moderna di Delacroix, solo per citare dei fatti emergenti, hanno il benché minimo coinvolgimento con l’esplosione della tecnica, che trova adeguata risposta solo nell’invenzione concettuale, estetica, ingegneristica e architettonica di quel gigantesco trasparente contenitore di "tutte le possibili merci del mondo", che fu il Crystal Palace, costruito da Joseph Paxton a Londra, nel 1851.

Voluto dal principe Alberto e organizzata da Henry Cole, l’Esposizione di Londra, sviluppata su una superficie di settantamila metri quadrati, necessari per ospitare non meno di ventimila espositori, risulta completamente contenuta all’interno dell’immenso palazzo di vetro, il più grande edificio che fosse mai stato costruito con pezzi standardizzati di ferro e vetro (l’utilizzo di moduli – il modulo standard dell’edificio è di metri 7,32 – permetterà alla struttura di essere smontata e rimontata, come in effetti avverrà l’anno seguente (1852), per essere spostata a Sydenham) nello stile delle grandi serre che, a partire dal 1830, si diffondono in Francia e in Inghilterra.

Lo stesso spazio pneumatico, una sorta d’aria/aura innaturale, sostiene serre, stazioni ferroviarie (la King’s Cross Station di Londra, realizzata da Lewis Cubitt nel 1851-52, è costituita da due volte parallele di 24 metri di larghezza ognuna) e palazzi di vetro: il giardino del mondo, il transito del mondo, le merci del mondo posseggono, da questo momento, la stessa "estetica" dell’artificiale. Il naturale è artificialmente conservato (da qui l’origine dei parchi tematici del XX secolo), così come l’artificio dei prodotti industriali è reso naturale sotto la trasparenza e l’armonia degli stessi archi. Sotto questi archi avviene l’estetizzazione della natura, del viaggio e della merce: l’albero, il viaggio, il prodotto acquistano un valore aggiunto.

Il Crystal Palace rappresenta il punto culminante della feticizzazione della merce tecnologica (si veda, per lo sviluppo di questo pensiero, Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977): gli stessi operai devono pagare un biglietto d’ingresso per poter vedere per la prima volta nella loro forma completa, "finita", gli oggetti da loro stessi prodotti ed esposti all’interno di una gigantesca e quasi smisurata serra che conteneva, in una sorta di mostruosa capsula organica, alberi (siamo ad Hyde Park), padiglioni nazionali, macchine e persino una casa operaia, fatta appositamente costruire come concessione libertaria allo spirito proletario in rivolta. Qui, in questa architettura "politica", qualunque tipo di finestra sarebbe stata incongrua, ogni merce, ogni tipo di merce, essendo a disposizione, o, per meglio dire, essendo stata esposta per testimoniare la trasparenza democratica della produzione (occultando di essa la parte invisibile: il lavoro!) e della distribuzione.

Già nel 1880 vengono introdotti logo aziendali per merci prodotte in serie, come per esempio, le zuppe Campbell (quasi un secolo dopo, Andy Warhol, ne tradurrà l’immagine pubblicitaria in opera d’arte)!

Il salto epo­cale della post-modernità rispetto alla modernità è gigante­sco; la merce, che nella modernità tendeva ancora a rappresentare l'aspetto produttivo di "fabbrica", si è caricata di valori talmente simbolici ed imma­teriali da diventare luogo di fatto di una qualità astratta (per questo aspetto della "qualità astratta" della merce nell'epoca post-moderna, si veda Fulvio Carmagnola, Luoghi della qualità. Estetica e tecnologia nel postindustriale, Domus Academy, Milano 1991), indipendentemente dalla sua qualità intrinseca. La merce si moltiplica nella differenza infinita, ed ha bisogno quindi, per essere identificata, di possedere e di poter ostentare con molta evidenza la propria marca. La marca è il nuovo segno, la nuova insegna!

La trasformazione attuale non è più quella che va dal sog­getto alla cosa attraverso il predicato che la trasforma in oggetto, ma da un soggetto precario, effimero, che non predica più la cosa, ma che attesta, docu­menta, la marca della cosa: che la cosa è tale, e che esiste, solo in quanto possiede una marca. La verità è di marca.

Possiamo comprendere meglio il peso che posseggono i "marchi", seguendo i romanzi dell’area cosiddetta "minimalista" americana, il cui più importante rappresentante è stato Brett Easton Ellis.

Il romanzo, American Psyco (New York 1991;tr. it. Bompiani 1991), è un agghiacciante ritratto della nostra società, vista attraverso gli occhi di uno spietato serial killer cannibale.
Il protagonista, Patrick Bate­man, nel capitolo intitolato Mattino, ci descrive il suo mondo:

Alle prime luci di un'alba di maggio, ecco come si presenta il mio sog­giorno, Sopra il caminetto di marmo chiaro e di granito è appeso un Da­vid Onica originale. É il ri­tratto di una donna (...) seduta su una sdraio a guardare la tivù, con un paesaggio marziano sullo sfondo (...) Ai piedi del dipinto, un lungo sofà (...) e un televisore digi­tale Toshiba da trenta pollici (...) apparecchio ad alta definizione, corredato da sup­porto orien­tabile e tube combination d'alta tecnologia della NEC, con dispositivo digi­tale per effetti "quadro nel quadro" (...) videoregistratore Toshiba (...) Betamax super high band (...) tavolinetto da tè (...) con gambe di rovere Turchin (...) animaletti di cristallo Steuben (...) posacenere Fortunoff (...) Accanto al juke-box Wurlitzer, c'è un pianoforte a coda (...) Baldwin (...) portariviste di Gio Ponti (...) etc.

Segue la de­scrizione altrettanto accu­rata delle marche degli indumenti indossati per la notte e una lunghis­simo e dettagliato catalogo delle merci della cosmesi mattutina. Il "giovin si­gnore" è alla fine pronto, dopo l'ultimo rituale della vestizione (naturalmente, tutti i capi son firmati!) per uscire e farsi condurre da un taxi in Wall Street.

Ellis porta all'estremo la constatazione dell'avvenuta sostituzione dei nomi delle cose, vale a dire dei "sostantivi nominali", con quelli delle loro marche. L'uomo postmoderno non nomina più le "cose", in quanto esse non appartengono più alla dimensione di chi vive totalmente immerso nella società dello spettacolo, nella quale prevale lo scam­bio simbolico di forme immateriali, di cui il marchio di un oggetto rappresenta il più significativo emblema: segno di comunicazione, che non va nella dire­zione della pro­fondità, ma che si muove sul piano di riconoscimento e di scambio con altri emblemi.
Se tutto è artificiale, anche l'uomo stesso è concepito, da Ellis, come meccanismo, per altro non centrale, di questa condizione. I suoi senti­menti sono artificiali, e la vita stessa, dunque, non vale nulla. Ecco per­ché diventa così "normale" uccidere e persino divorare le proprie vit­time.
Quale abissale differenza tra il postmoderno (e posthuman) Bateman e un protagonista del romanzo moderno, come potrebbe essere, per esempio, lo "Straniero" di Albert Ca­mus. Questi uccide a caso un altro uomo per dimostrare l'an­gosciosa evidenza della fine di ogni morale, se è vero che l'esistenza è priva di essenza; il protagonista del romanzo di Ellis uccide senza voler dimostrare alcunché.

Le "cose", che appartengono, dunque, alla dimensione simulativa e arti­ficiale della vita metropolitana, non possono essere sempre e inelutta­bilmente che merci, e merci viste nella loro forma simbolica.
Ecco per­ché elementi della natura non compaiono, si può dire, nel romanzo terri­bile di Ellis, in quanto non rivestono immediatamente caratteri di merce. Sosti­tuiti i nomi delle cose con i nomi delle loro marche, gli oggetti appaiono tutti creati, tutti artificiali; il mondo si configura come una rete di oggetti riconoscibili solo per il loro marchio. Le cose si specchiano nelle cose, potenzian­dosi reciprocamente in un sistema molto simile a quello organico e natu­rale. Tutto il mondo prodotto appare creazione di un de­si­gner di moda: design dell'este­tico, che produce solo forme simboliche.

Il rivoluzionario progetto delle avanguardie dell'arte di trasformare il mondo è stato perfettamente compiuto dalla produzione tecnologica. Il mondo si è trasformato ed evoluto esteticamente, seguendo l’evoluzione della cosa in merce e della merce in logo.
Spariscono, con il nome delle cose, anche il soggetto politico, il soggetto etico, il sog­getto morale: il soggetto predicativo, critico!
In effetti, quale linguag­gio dovrà essere usato per comunicare tra soggetti che si muovono in spazi totalmente artificiali, di tipo virtuale, in mezzo ad immagini, che non sono cose, o loro rappresentazioni, ma loro sostituzioni concettuali?

Abbiamo altrove scritto: come già Horkheimer e Adorno avevano compreso (era il lontano 1947), il paesaggio urbano moderno non è altro che una réclame sconfinata, "uno sfondo di cartelli e d’insegne, di affissi e di scritte luminose" (Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialektik der Aufklärung, Philosophische Fragmente (1947 e 1969); tr. it Dialettica dell’illuminismo, a cura di Lionello Vinci, Einaudi, Torino 1966) l’ultimo grande stile dell’estetica moderna, che trova nell’odierna informatizzazione urbana di Tokio la sua più perfetta condensazione (le facciate delle costruzioni spariscono dietro le parole luminose che esse sorreggono in un mosaico labirintico di corpi e caratteri). Non si dimentichi, per altro, che non è la città, ma la Metropoli, a conquistare quello Stile, inteso come linguaggio organico che traduce in immagine decorativa ogni conflitto, tra cui la difficile relazione tra tecnica, arte e soggetto.
Questi rapporti, nella città contrapposti e dirompenti, possono apparire nella Metropoli solo come ornamento, solo come tatuaggio totale; in essa soltanto l’ornamento si fa stile coerente e unitario, perfetta rappresentazione della società come spettacolo e, dunque, di una società che ha spento ogni conflitto etico nella perfetta fusione estetica tra politica e capitalismo.

Questo è il panorama attuale delle merci: un orizzonte metropolitano perennemente illuminato dai loghi, e, più in basso, un percorso controllato punto per punto, momento per momento, dall’occhio del "rivelatore", colui che intuisce i nostri desideri, li indirizza, li precede, determinando non più tanto l’impulso all’acquisto, ma la necessità di appartenere alla dimensione di questa gigantesca comune visibilità, che intreccia insieme uomini, comportamenti, filosofie e prodotti. Con una precisa corresponsabilità del soggetto: il soggetto attuale vuole atomizzarsi nella matrice artificiale, perdersi nel condiviso, nell’essere parte del programma. E nulla più del logo fa capire che cosa sia un programma.