Tutto il sistema di comunicazioni visive va inteso come un puro spettacolo di estetica diffusa, contrapposta all’arte.
Potremmo iniziare il nostro tema, riaffrontando la questione, di certo nodale, della "società spettacolo", così come c’è stata descritta da Guy Debord nei suoi saggi. Ma, poiché ce ne occupiamo anche altrove (immagine), qui affronteremo altre questioni, più legate alla comunicazione visiva.
La grande illusione della modernità, vale a dire di quelle idee "critiche" che avevano permesso di distinguere la realtà dallo spettacolo, il vero dal falso, il naturale dall’artificiale e così via, si chiude definitivamente nella postmodernità.
Nell’enunciare l’avvenuta e irreversibile spettacolarizzazione del mondo, un gran numero di artisti attuali denuncia, con opere terribili da vedere, il cortocircuito che avviene quotidianamente tra le dimensioni della realtà, dell’immaginario e dello spettacolo.
Opere terribili, proprio perché solo così esse possono tentare di differenziarsi dall’orrore del quotidiano, quel miscuglio terribile che è dato dalla sovrapposizione tra realtà e media: dal cinema che s’ispira alla televisione, dalla televisione che s’ispira al virtuale, dal virtuale che s’ispira alla vita, dalla vita che s’ispira alla performance continua, all’interno di una dimensione di globalità planetaria, governata dalle leggi del mercato e delle sue infinite ed evolutive rappresentazioni, e tutto ciò, a sua volta, all’interno di una dimensione ancor più ampia e pervasiva, che è data dalla potenza ormai indomabile della tecnica.
Opere terribili, perché solo provocando scalpore si ha l’illusione di determinare uno choc salutare. Un problema di salute!
Due importanti mostre, realizzate sotto le prestigiose cure della Royal Academy of Arts di Londra, Sensation (1997) e Apocalypse. Beauty and Horror in Contemporary Art (2000), hanno segnato il passaggio dal regime dello scandalo a quello dell’orrore: molte delle loro opere esposte volevano essere inguardabili.
Solo così esse potevano dimostrare di sfuggire all’entertainment, al divertimento, per mettere in evidenza, attraverso un processo autoriflessivo e analitico, la resistenza del soggetto a sparire: l’interesse ossessivo sul corpo, che caratterizza queste opere, è provocato dalla necessità, da parte dell’artista, di rappresentare l’unica cosa che possiede, tragicamente ottusa, per l’appunto il suo corpo. E null’altro. E ancora per poco.
La questione è antica: la comunicazione dell’arte è solo visiva, cioè da intendersi in maniera restrittiva di un godimento dell’occhio (Goethe chiamava l’effetto dell’opera d’arte figurativa un Augenweide, un "pascolo degli occhi"), o è essenzialmente invisibile, vale a dire concettuale, etica, morale?
Scriveva Ludwig Wittgenstein, facendo proprio un verso schilleriano, che "seria è la vita, allegra è l'arte"
: una concezione dell'arte intesa, dunque, come un divertimento, nel senso proprio di una comunicazione diversiva rispetto ai grandi problemi concreti e drammatici della vita.
L'importante domanda che Wittgenstein si pone su quella che potrebbe essere l'essenza del "modo di vedere artistico"
- a cui dava risposta facendo proprio il verso schilleriano appena citato, e chiedendosi se in fondo non sia "il vedere il mondo con occhio felice" (dal momento che potremmo tutti convenire sul fatto che "il bello sia il fine dell'arte"
ed essendo il bello "ciò appunto che rende felici"
),- dimostra oggi tutta la sua limitatezza e la sua inattendibilità.
Siamo noi che sbagliamo, infatti, a richiedere costantemente all'arte una rappresentazione ottimistica della realtà e del futuro; la nostra domanda dovrebbe essere volta al contrario e pretendere dall'arte, nell'assenza attuale di altre voci, o nel loro limitato potere, una lettura pessimistica e dunque critica del mondo, proprio nel senso già enunciato di una vera ed effettiva "messa in crisi" del mondo.
E dunque, questa critica del mondo, che si manifesterebbe soprattutto come riconquista da parte dell'arte di una sua autonomia linguistica rispetto all'esteticità diffusa, non dovrebbe tradursi che in un atto comportamentale di carattere etico. Un atto che prevederebbe, tuttavia, la riconquista del valore, del senso, e tale da garantire all'opera d'arte una sua funzione di rottura, di coupure, nell'accezione originaria del suo termine: di taglio, rispetto al resto del mondo. Ma un taglio che preannuncia, significativamente, l'evocazione del tempio, del luogo cioè in cui il tempo si ritaglia sacralmente dal mondo.
In questione è il decidersi nel mondo o dal mondo.
Rovesciare dunque l'assunto wittgensteiniano, ed affermare che, al contrario, seria è l'arte e felice è la vita?
Il pensiero attuale più critico tende a reinserire, infatti, l'arte e la poesia all'interno di una funzione critica e analitica del mondo, perché il grande spettacolo simbolico dell'espressione artistica, dal cinema alla poesia, dal romanzo alla musica, possa aiutarci a superare la dimensione allucinante della simulazione progressiva della realtà e a mettere in discussione l'eccessivo ottimismo tecnologico e scientifico, che si traduce in una vera e propria epidemia virologica di comportamenti consumistici.
La penultima edizione di Documenta di Kassel si è caratterizzata esattamente per questa finalità critica e politica di restituire al mondo una sua possibile reinterpretazione. Il titolo stesso della manifestazione Politics-Poetics gioca su questo aspetto duplice della possibile funzione dell’arte, di produrre poetiche e nuove politiche. Un tema assolutamente originale, di questi tempi!
Ma ciò che ancor più caratterizza la cultura postmoderna è la sospensione di ogni giudizio e persino di ogni opinione: lo spettacolo attuale s’illumina solo se privo assolutamente di contenuti e di messaggi, così come d’ogni memoria storica e d’ogni idea di progresso. S’illumina dei fuochi con i quali ha incendiato la storia. Lo spettacolo attuale invoca l’illuminotecnica piuttosto che l’illuminismo!
Infatti è una dimensione ad effetto. E, come sappiamo, oggi gli effetti son tutto (in televisione e in politica).
Le opere postmoderne portano ad estreme conseguenze la descrizione, iniziata nell’Ottocento, dell’assoluta normalità del male, su cui si rende possibile costruire e legittimare una sorta di estetica dell’orrore. Il male non appartiene più alle zone d’ombra della personalità dell’individuo, e la letteratura si trova di fronte ad una realtà che supera in orrore qualsiasi invenzione creativa, dovendosi così trasformare in una sorta di cronaca diretta, da cui s’illude di salvarsi proiettandosi nella dimensione accelerata dell’orrore.
Trovandosi nella necessità di dover descrivere il crimine e la violenza come eventi del tutto coerenti con la realtà quotidiana, la letteratura deve oltrepassare la barriera tra ciò che è bene e ciò che è male: è la barriera stessa che si è abbattuta, è il muro della differenza che è caduto, aprendo gli infiniti percorsi dell’indifferenza diffusa.
Il sistema nervoso dei personaggi ha cominciato ad esteriorizzarsi, come conseguenza di un più generale rovesciamento di valori, a dirla con James G. Ballard (The Atrocity Exhibition, 1990; tr. it. La mostra delle atrocità, Rizzoli, Milano, 1995; prefazione di William S. Burroughs; a cura di Antonio Baronia).: tutto l’interiore si è decensurizzato, mettendo in mostra le parti più nascoste e più intime, assolutamente congrue con il paesaggio dell’orrore disegnato dall’attuale paesaggio metropolitano, quello, per capirci, che sta alla base delle illustrazioni di Robert Williams, di Charles Burns o di Coleman, oppure di gran parte del cinema splatter e della letteratura "minimalista" americana, il cui massimo rappresentante è Brett Easton Ellis (American Psycho è il diario terribile della stessa metropoli).
Lo spettacolo non è della natura, ma della tecnica!
Questo il punto essenziale di ogni nostro discorso. La natura non possiede in sé nulla di bello: a meno che non la si guardi con l’occhio coltivato (!) dal primo prodotto della tecnica, che è l’opera d’arte. Non affrontiamo l’altra immane questione, per la quale non ci sentiamo in forze, del vedere la natura come species-spettacolo divino.
La scoperta dello spettacolo, che è nell’antinaturale (innaturale?) della città, trasformantesi in metropoli, risale al primo grande critico della modernità, Charles Baudelaire, il quale perfettamente descrive la vita mondana: dove "mondano" vuol dire "dentro il mondo" urbanizzato, cioè regolato dalle leggi del profitto, delle merci e della loro diuturna esposizione.
Il primo spettacolo, dunque, dopo quello offerto-vissuto nella città come tale, è l’illuminazione artificiale delle vetrine, che fanno del primo piano degli edifici un’ininterrotta galleria di offerte.
Una vita, dunque, totalmente urbana, là dove si muove il dandy, il viaggiatore mondano, che aborre la natura ed è attratto sentimentalmente dalla tecnica: solo essa è capace di produrre meraviglia, il nuovo atteggiamento culturale prodotto dalla visione post-romantica della modernità, di cui Baudelaire nel suo articolo sul Salon del 1859 si fa straordinario e insuperato interprete.
Il desiderio di meravigliare e di essere stupiti è più che legittimo. "It is a happiness to wonder", "è una gioia meravigliarsi"
; ma anche "it is a happiness to dream", "è una gioia sognare"
- scrive.
Ma, attenzione, il flaneur di Baudelaire va in carrozza, non in treno! Aborre la natura quanto il progresso. Vive una vita sospesa tra la melanconia del disadattamento e l’intuizione dell’avvento dell’era moderna. Ama l’artificiale, ma rifugge dal farsi fotografare. Comprende tuttavia che tutto l’universo visibile non è che un deposito di immagini e di segni ai quali l’immaginazione deve attribuire un posto e un valore relativo.
Il capitolo del Salon dedicato da Baudelaire al paesaggio termina, non a caso, con un richiamo alla "meraviglia" tecnica del momento, il diorama: "Vorrei ardentemente essere condotto di nuovo verso il diorama, la cui magia brutale ed enorme sa impormi un’utile illusione. Preferisco contemplare certi scenari teatrali, ove trovo, espressi con la sapienza dell’arte e concentrati in figura tragica, i miei sogni più cari."
Come annota Benjamin (W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, tr. it. di R. Solmi, Torino 1976, pag. 107), Baudelaire aveva perfettamente compreso che l’uomo era ormai diventato "un caleidoscopio dotato di coscienza".
Un nuovo sistema di percezione del mondo (della moda, delle merci, della metropoli, insomma di tutto ciò che ormai si presentava sotto forma d’immagine e di comunicazione visiva…) accelera la perdita del naturale a favore di un inarrestabile predominio dell’artificiale.
Già gli Impressionisti, contrariamente a ciò che comunemente si dice, faranno precipitare nel colore (industriale, per la prima volta in tubetto) la coscienza dell’irrapresentabilità della luce del sole: il sole muore definitivamente nelle colline di colore che si corrugano sulla tavolozza portatile dei pittori en plain air.
La natura comincia ad essere sentita come luogo di salvezza; non come fonte d’ispirazione, ma come dimensione di verifica della propria pulsione distruttiva.
Non fu forse proprio il più grande, Claude Monet, a far deviare dalla sua proprietà, a Giverny, la ferrovia per avere tutto per sé l’orizzonte da dipingere come se fosse un immenso parco tematico, di cui ci offre immagine sintetica e sintomatica nell’enorme anello circolare delle Ninfee all’Orangerie?
Uno dei più singolari parchi a tema "americano", costruito a Parigi, il Disneyland Paris, presenta, oggi, come una delle sue attrazioni più innovative una sorta di diorama rovesciato, un cinema circolare nel quale gli spettatori sono collocati al centro; il film che vi viene proiettato è, guarda il caso, dedicato a Jules Verne in visita all’Expò francese del 1859; durante questa visita nel luogo in cui tutte le merci si presentano come anticipazioni innovative del futuro, Verne viene fatto incontrare con Wells, l’autore del celebre romanzo La macchina del tempo (1895), macchina nella quale sarà fatto entrare lo stesso Verne per permettergli di fare il suo viaggio nel futuro e scoprire la nostra presenza di viaggiatori immobili attorno a cui ruota il viaggio senza tempo della metafisica digitale, che pone sullo stesso piano circolare passato, presente e futuro.
Lo spettacolo è circuitale, totale, cosmico.
La trasformazione delle cose in spettacoli di merce, ovvero la scoperta che ogni cosa può essere concepita e commercializzata come una merce, avviene nello stesso momento in cui l’operaio, per la prima volta, riesce a vedere, visitando la prima grande Esposizione Universale del 1851 a Londra, il prodotto del suo lavoro non più come parte di un tutto, ma finalmente come un’opera completa e finita, la cui percezione globale gli era stata di fatto impedita e il cui godimento concreto gli sarà comunque pur sempre impossibile.
L’immagine finale del suo lavoro appare all’operaio come un’entità essenzialmente fantasmatica e irraggiungibile, e quindi come oggetto di desiderio, un desiderio che non potrà mai essere appagato, un desiderio che prende la forma ossessiva del feticismo. E il feticista chi è se non colui che, non potendo godere di tutto l’oggetto del suo desiderio, si accontenta di un suo particolare, su cui rovesciare la sua brama di possesso?
Per questi motivi il prodotto finito si presenta a quegli occhi come "definitivo", irraggiungibile, intangibile, e dunque parvenza metafisica; immateriale ed astratto, risultato della trasformazione dei prodotti del lavoro umano in una fantasmatica "apparenza di cose", come avrebbe detto Marx in un punto saliente della sua analisi politica (Carl Marx, Il capitale, capitolo I, parte quarta, Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto.
L’operaio assiste, dunque, alla grande trasformazione alchemica prodotta dal capitale: nel trasparente e luminoso palazzo di vetro di Paxton, che copre e ingloba al suo interno non solo gli svariati padiglioni internazionali, ma anche lo stesso Hyde Park, facendolo diventare l’interno di una serra, si mette in scena lo spettacolo straordinario del carattere fantasmatico della merce e la sua onnipresenza.
L’esposizione diventa effettivamente spettacolo universale, nel senso che tutto il mondo vi è rappresentato per campioni in una sorta di postmoderno eclettismo. Produzione artigianale, artistica e meccanica si confondono o per meglio dire vengono confuse mediante un doppio movimento di spettacolarizzazione, la mise en vitrine del mondo indifferenziato delle merci, tra cui anche l’opera d’arte, e lo stile decorativo, che uniforma nella stessa estetica decorativa ogni diverso prodotto.
Je suis l’artiste.
L’artista francese, che vive quest’esperienza traumatica, non vuole comprendere la rivoluzione davvero "moderna" di questo nuovo stile di vita e di questa società irreversibilmente votata al consumo; resiste ai richiami ripetuti degli organizzatori delle Esposizioni e al loro invito a non rifiutare "le voisinage des produits industriels qu’ils ont si souvent enrichis et où ils peuvent puiser encore des nouveaux élements d’inspiration et de travail"
(Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, 1977, pag. 48).
Lo stesso Courbet nel 1855, in occasione dell’Expò di Parigi, non vuole confondere le sue opere con le merci ed espone i suoi quadri in un padiglione situato all’esterno; altrettanto faranno, in altre occasioni, prima Manet e poi Gauguin nel 1889, l’anno dell’ormai quinta Esposizione Universale parigina e l’anno della costruzione della Torre Eiffel.
Agamben, da cui ricavo quest’ultima informazione preziosa, rileva altresì come un artista assolutamente geniale, quale fu Grandville, aveva perfettamente intuito la nuova vita che le cose cominciavano ad assumere; nelle sue caricature, e precisamente nella serie di illustrazioni dedicate alle Petites misères de la vie humaine, per altro analizzate da Baudelaire che ne era rimasto affascinato e impaurito, l’artista presenta tutta una serie di tragicomici incidenti che scaturiscono dall’uso quotidiano degli oggetti, quasi essi avessero cominciato una loro rivoluzione per affermare la loro identità.
Potremmo far iniziare da queste analisi il riconoscimento non solo di una "vita" degli oggetti prodotti dalla tecnica, ma addirittura l’inizio di una loro vera e propria organicità, come recentemente ha acutamente sostenuto Mario Perniola nel suo Il sex appeal dell’inorganico.
Potremmo dire che le cose, dotate ormai d’un valore comunicativo autoprodotto, cominciano a dare spettacolo.
Réclame. Lo spettacolo pubblicitario.
Come già Horkheimer e Adorno avevano compreso (era il lontano 1947), il paesaggio urbano moderno non è altro che una réclame sconfinata, "uno sfondo di cartelli e d’insegne, di affissi e di scritte luminose"
(Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialektik der Aufklärung, Philosophische Fragmente (1947 e 1969); tr. it Dialettica dell’illuminismo, a cura di Lionello Vinci, Einaudi, Torino 1966, p. 174"), l’ultimo grande stile dell’estetica moderna, che trova, oggi, nell’odierna informatizzazione urbana di Tokio la sua più perfetta condensazione (le facciate delle costruzioni spariscono dietro le parole luminose che esse sorreggono in un mosaico labirintico di corpi e caratteri).
Non si dimentichi, per altro, che non è la città, ma la Metropoli, a conquistare quello Stile, inteso come linguaggio organico, che traduce in immagine decorativa ogni conflitto, tra cui quello che intercorre tra tecnica, arte e soggetto.
Questi rapporti, nella città contrapposti e dirompenti, possono apparire nella Metropoli solo come ornamento, solo come tatuaggio totale; in essa soltanto l’ornamento si fa stile coerente e unitario, perfetta rappresentazione della società come spettacolo e, dunque, di una società che ha spento ogni conflitto etico nella perfetta fusione estetica di politica e capitalismo.
Horkheimer e Adorno, nella loro Dialettica dell’illuminismo, chiariscono definitivamente l’analogia tra cultura artistica e cultura della pubblicità, portando a compimento il lungo viaggio interpretativo del volto metropolitano iniziato da Edgar Allan Poe e ripreso magistralmente da Baudelaire e da Benjamin.
I due studiosi avevano potuto mettere a confronto, giungendo a conclusioni inquietanti, il modello propagandistico adottato e ideato da Goebbels (il cui fiuto gli aveva fatto capire che la nuova arte era ormai la pubblicità!) con quello che stava forgiando il nuovo landscape metropolitano e pre-pop dell’America del nord.
Il carattere di montaggio dell’industria culturale del tempo aveva messo in evidenza, ovviamente in America, la fine inesorabile della cultura stessa, in quanto "merce paradossale, talmente soggetta alla legge dello scambio da non poter essere più scambiata", risolta così ciecamente nell’uso "da non poter più essere utilizzata", trasformata in amusement ideale a prescindere dai suoi contenuti, tutti omologati nella purificazione che lo spettacolo garantisce ai suoi spettatori.
La "fusione di cultura e svago – avevano allora sostenuto Horkheimer e Adorno, acutamente cortocircuitando tra loro storie impossibili, quella del capitalismo americano d’allora e quella dell’ideologia nazista - non si compie solo come depravazione della cultura, ma anche come spiritualizzazione forzata dello svago"
(p. 155): la liberazione dall’amusement è, quindi, liberazione dal pensiero che ama la dipendenza e che non si oppone alle scelte fatte in suo nome.
L’industria culturale - vista come effetto di una programmazione propagandistica piuttosto che come un’attività autonoma, critica, oppositiva e costruttiva nei riguardi delle scelte sociali e collettive - si fonde, secondo questi autori, con l’avvento della civiltà capitalistica, con la réclame, ovvero con le strategie onnivore della comunicazione commerciale.
Come non ricordare, ancora una volta, la straordinaria intuizione warholiana e in genere dell’intera esperienza pop, tutta riassumibile - ai fini del nostro discorso sul doppio opportunismo del rapporto, già tutto postmoderno, tra arte e réclamei - nell’opera di Robert Indiana, Eat, del 1964, un’insegna al neon che dovette essere spostata dalla facciata di un padiglione della Fiera Mondiale di New York, perché la gente pensava che fosse l’indicazione di un ristorante, fatto sul quale immediatamente Warhol pensò bene di realizzare il film omonimo: Eat, b/n, muto, 39 min., 16 f/s. Con la partecipazione dello stesso Robert Indiana.
Lo spettacolo è americano! Dal tempo in cui in Europa stanno ancora legiferando avanguardie storiche-figurativel Straordinaria, infatti, la consapevolezza tedesca, già negli anni venti, dell’irrecuperabile supremazia del cinema americano o, per essere più esatti, del suo imponente apparato, che caratterizza l’avvento di uno stile sfolgorante di ornamenti accessori, di potenti mezzi suggestivi, di effetti sonori, di rutilanti immagini visive: insomma – come scrive Joseph Roth, nel 1924 – ha avuto inizio l’ipertrofia della cornice. Alla prima del film Rosite "gli spettatori spalancarono la bocca e gli occhi: su di loro era piombata l’America come un’improvvisa catastrofe, con le porte di sicurezza che non funzionavano"
.
Ma il momento culminante,
osservava acutamente Roth, era già avvenuto al momento dell’entrata, nell’estasi della réclame, negli annunci pubblicitari prima dell’inizio dl film, a cui seguono, senza soluzione di continuità, i notiziari della settimana, che mostrano, come continuazione della pubblicità, qualche generale nell’atto di deporre una corona sul monumento di qualche eroe. Tutto ciò,
conclude Roth, "genera rassegnazione e indifferenza"
.
Ci sono in queste osservazioni già tutti i motivi di riflessione che sarebbero stati fatti più di mezzo secolo dopo da tutti coloro che si occuperanno della società dello spettacolo e della continuità indivisibile tra realtà e finzione simulativa, tra fatti, cronaca e pubblicità.
L’analisi, in modo particolare, di Horkheimer e Adorno sarà profetica e molti passaggi della loro Dialettica dell’illuminismo anticiperanno, a loro volta, le analisi sociologiche di McLuhan, di Boorstin e di Debord (vedi immagine).
Nel capitolo dedicato all’Industria culturale leggiamo, infatti, a proposito dei primi media (siamo nel 1947 e la televisione era ancora ai suoi primissimi passi) che, incorporando completamente i prodotti culturali nella sfera delle merci, la radio rinuncia addirittura a collocare come merci i suoi prodotti culturali. Essa non riscuote in America alcuna tassa dal pubblico e assume così l’aspetto ingannevole di autorità disinteressata e imparziale, che sembra fatta su misura per il fascismo (…). Il carisma metafisico del capo, inventato dalla sociologia religiosa, si è rivelato infine come la semplice onnipresenza dei suoi discorsi alla radio, diabolica parodia dell’onnipresenza dello spirito divino. Il fatto enorme che il discorso penetra ovunque sostituisce il suo contenuto con il suo sufficiente essere on air
(p. 171)!
Catchfire. Lo spettacolo nell’arte.
L’arte americana possiede, soprattutto a partire dagli anni cinquanta, a differenza di quella europea, la caratteristica di procedere congiungendo insieme la produzione della propria immagine e quella delle proprie opere fino al punto di cortocircuitare le due energie in un solo implosivo atto creativo, come aveva fatto Andy Warhol.
Molti artisti contemporanei, tra cui Jenny Holzer, Jeff Koons e molti altri, operano volutamente nel punto d’incontro di queste dimensioni commerciali ed estetiche.
Pura follia il pensare, nel congelato deserto degli anni Novanta e ancor meno oggi, di produrre movimento. In ciò l’arte della Holzer o di Koons è tipicamente americana, ancora soggetta all’illusione di una grande onestà morale, nonostante la consapevolezza di essere essa stessa un’arte che recita su una scena definitivamente e spettacolarmente aperta, senza più alcun sipario che la divida e la distingua dal suo pubblico.
Mentre lo spettatore europeo o orientale percepisce, infatti, i paesaggi urbani o extraurbani dei film americani come degli scenari appositamente ricostruiti e segue quindi la narrazione come qualcosa che è appartiene ad un mondo fittizio, lo spettatore americano riconosce con immediata partecipazione luoghi, circostanze, comportamenti a lui familiari, rivivendo senza sorprese gli eventi.
Ad uno straniero l’America si presenta assolutamente identica all’immagine che ne ha e che si è forgiato spettacolo dopo spettacolo, immagine dopo immagine, romanzo dopo romanzo. Ciò che sconvolge è lo choc da deja-vu. Manhattan, il Gran Canyon, Las Vegas, il deserto californiano, tutto è esattamente come noi li vediamo al cinema. I personaggi dei film sono personaggi reali, che usano della recitazione dell’attore per esprimersi meglio e per comunicare più diffusamente il proprio modello (stilistico e morale) al resto del mondo.
Da una parte, dunque, le forme della città, della natura e dei comportamenti individuali e collettivi sono identici a quelli rappresentati nei film, nelle telenovelas e nelle fotografie pubblicitarie, dall’altra, però, è anche vero che tutto il mondo americano si è gradualmente e inesorabilmente prestato ad assomigliare sempre più alla propria riproduzione mediatica in un allucinante (per lo straniero) rispecchiamento sempre più perverso.
L’avanguardia artistica attuale, ben cosciente di ciò, non può sottrarsi all’ingranaggio che ormai indissolubilmente intreccia realtà e artificio e unisce in un patto di alleanza artisti, attori e spettatori.
Per fare un esempio, potremmo citare un film di Dennis Hopper, Catchfire ([Alan Smithee] Dennis Hopper, Catchfire; il titolo italiano del film è Ore contate. Il titolo originale era Backtrack, 1989), interessante particolarmente per il fatto che la figura della protagonista, un’artista di nome Anne Benton, sintetizza in sé le caratteristiche di due artiste americane famose, Cindy Sherman e, per l’appunto, Jenny Holzer, di cui vediamo le opere reali, collocate nei vari ambienti attraversati dalla narrazione filmica, opere che, per quanto provocatorie possano essere, vengono automaticamente assorbite da quel mondo fittizio che si erano prefisse di denunciare.
Si era dovuti attendere, dopo la stagione delle avanguardie storiche, la cultura pop degli anni Sessanta, per vedere definitivamente confuse l’arte e l’estetica: un’arte che presentava come opere artefatti merceologici e un’estetica che introiettava le opere come sintomi pubblicitari e mediatici.
Il designer delle scatole.
Warhol infatti aveva già perfettamente compreso la relazione clinica-cinica che intercorre tra arte, vita e pubblicità, senza più una netta supremazia di una dimensione sull’altra. Ne fa testimonianza tutta una serie di opere particolari, come Dick Tracy del 1960, Superman del 1961 e Popeye del 1961, copie ingrandite di annunci pubblicitari ("finestre di finestre"), e ancor più quel capolavoro invisibile che è Soap Opera (1963), un film che ripete esattamente le tematiche, il clima e lo stile delle soap-opera televisive, addirittura inserendovi, al suo interno, veri messaggi pubblicitari.