Specchio

"... E se non stai buono, - aggiunse Alice, - ti faccio andare nello specchio. Ti piacerebbe di andare nello specchio? Ora, se stai attento, Frufrù, e non parli tanto, ti dirò tutta la mia idea intorno alla Casa dello Specchio. Prima di tutto, v'è la stanza che si vede attraverso lo Specchio: è precisa come il salotto dove stiamo; però tutte le cose son messe alla rovescia. Salendo su una sedia la veggo tutta... tutta tranne la parte dietro il caminetto. Quanto mi piacerebbe veder quella parte! Chi sa se nell'inverno c'è il fuoco: se il nostro focolare non fa fumo, non s'indovina mai; ma se c'è fumo di qua, c'è fumo anche di là. Ma chi sa, può essere una finzione, per dare a credere che ci sia il fuoco anche di là. I libri, poi, somigliano ai nostri libri; ma le parole sono stampate a rovescio. Questo lo so; perchè ho tenuto un libro contro lo specchio, e nell'altra stanza ne hanno pigliato un altro.
«Ti piacerebbe di stare nella Casa dello Specchio, Frufrù? Chi sa, se ti darebbero il latte là dentro? Forse il latte della Casa dello Specchio non è buono da bere... E ora, Frufrù, arriviamo al corridoio. Se si lascia aperta la porta del nostro salotto si vede un pezzettino del corridoio della Casa dello Specchio: somiglia molto al corridoio nostro, ma chi sa se più in là non è diverso. Oh, Frufrù, che bellezza se potessimo entrare nella Casa dello Specchio! Son certa che ci sono tante belle cose. Fingiamo di poterci entrare, Frufrù, fingiamo che lo specchio sia morbido come un velo, e che si possa attraversare. To', adesso sta diventando come una specie di nebbia... Entrarci è la cosa più facile del mondo.»
Alice stava sulla mensola del caminetto mentre diceva così, sebbene non sapesse spiegarsi come fosse arrivata lassù. E certo il cristallo cominciava a svanire, come una nebbia lucente.
L'istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di vedere che ce n'era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto.
«Così, qui starò calda come nell'altra stanza, - pensò Alice, - più calda, veramente, perchè qui non ci sarà nessuno che mi farà allontanare dal caminetto. Che bellezza, quando mi vedranno attraverso lo specchio e non potranno toccarmi!» .

Non potevamo inziare, affrontando il tema dello specchio, se non con il romanzo di Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, che ci insegna come attraversarlo!

Superare il livello dello specchio significa smettere di guardare ossessivamente se stessi e rispondere alla definitiva domanda se non sia il caso di iniziare a conoscere l’altro, prima che se stessi!
Uscire dall’onanismo dell’autocompiacimento, per confrontarsi criticamente con l’enorme disimmetrica realtà, che è il mondo.
Il comunicare visivo è allusivamente e illusivamente speculare! È speculare, nel senso che mai può darsi un comunicare che non sia ascoltato o veduto, ma bisogna vedere se è anche compreso e percepito.

Come diciamo, a proposito dell’occhio e dello sguardo, c’è qualcosa che lega i comunicanti, anche al di là del loro volere: è il desiderio, il più spesso drammatico, di farsi capire, più ancora che di capire! Per questo motivo, a molti scappa detto, ineducatamente, al proprio interlocutore: capito?
C’è un desiderio di specularità tra i comunicanti. Ognuno dei due desidera che l’altro sia affine, che le comunicazioni di ambedue partecipino dello stesso codice.
Nella mia opinione, tuttavia, i comunicanti devono essere situati, per quanto momentaneamente, su piani differenti, per permettere, per la teoria dei vasi comunicanti (vedi anche figura, a proposito del filosofo ceramista …), il passaggio di un fluido… mentale (cos’è se non ciò l’essenza di ogni comunicare?) dall’uno all’altro. In altre parole, io credo che solo non le "affinità elettive" (come poteva sostenere il "romantico" Goethe nel suo omonimo romanzo, 1809), ma le fatali disaffinità possono permettere, tra i comunicanti, il riconoscimento delle reciproche diversità e dunque il conseguente rispetto della differenza che è l’altro.

Lo specchio, a chi lo interroga, riesce a far capire la differenza che tu sei a te stesso? Riesce davvero a sdoppiarti, a permettere di vederti da lontano, da fuori, vederti vedere, con un’improvvisa scoperta di alterità: sono io quello che mi vedo? Chi è colui che mi fissa, mentre lo guardo? Specchi e uomini hanno – come diceva Borges – lo stesso orribile destino, quello di riprodurre! Bisognerebbe, infatti, che ambedue riflettessero un po’, prima di darsi da fare a replicare le cose!
Poiché la letteratura storica e critica, soprattutto di carattere semiotico, intorno al tema dello specchio è ricca di contributi straordinari – come è indicato nella bibliografia alla fine dell’articolo, sia pur sintetica e a cui rimando, essendo alcuni dei testi fondamentali scaricabili in rete – ci limitiamo ad alcuni esempi di opere d’arte particolarmente significative.
Altrettanto sconfinata è la presenza dello specchio nel mito, nella poesia, nel romanzo e nell’arte figurativa. Lo specchio ha un ruolo fondamentale in architettura e le città attuali sono un gioco di riflessi. Ogni superficie translucida, se colpita opportunamente dalla luce, si fa specchiante. L’apparente luminosità di queste superfici specchianti nasconde, in effetti, il loro interno: la specularità è il contrario della trasparenza.
Per questo motivo l’attraversamento simbolico dello specchio diventa un’ossessione filosofica e letteraria, che trova il suo massimo canto nell’indimenticabile capolavoro di Carrol.

Fermo immagine

Velázquez,  Las Meninas, 1656/1957

Velázquez, Las Meninas, 1656/7,

Velázquez,  Las Meninas, 1656-1957, particolare

Velázquez, Las Meninas, 1656-7, particolare

Ci siamo già occupati del capolavoro di Velázquez, Las Meninas (1656/7) in sguardo.
Ritengo che sia il caso di approfondire alcune riflessioni su quello specchio, che appare al centro del dipinto.
Racchiuso da una cornice molto scura, che a noi appare nera, lo specchio rimanda l’immagine della coppia dei reali, che l’artista sta, forse, ritraendo.
Lo specchio, infatti, non ci dice nulla del quadro, a che punto d’esecuzione sia giunto e se, nel quadro, sono effettivamente ritratti i e sovrani. Il quadro che Velázquez sta dipingendo non c’è mai pervenuto!
Dentro la nera cornice vi è la prova dell’illusione. Noi crediamo che il riflesso spieghi il reale, mentre invece è propria questa falsa testimonianza a scatenare il mistero del quadro, ciò che lo rende così difficile da interpretare.
Come abbiamo detto altrove, Michel Foucault ci ha dato una chiave essenziale per cominciare a capire. È la magia del duplicato - dice Foucault - di tutte le rappresentazioni che il quadro rappresenta è la sola visibile, ma nessuno lo guarda. In piedi a lato della sua tela e intento unicamente al suo modello il pittore non può vedere questo specchio che brilla mite dietro di lui (Le parole e le cose, Rizzoli, 1967, p. 21).

Noi vediamo il pittore che si autoritrae, mentre controlla contemporaneamente ciò che ha di fronte con ciò che sta raffigurando sulla tela; niente ci aiuta a comprendere se il quadro è stato completato, a quale eventuale punto di stesura si trova o se non è stato appena concluso e l’ultimo tocco di colore è stato collocato a suggello del lavoro. Il movimento della mano che regge il pennello è stato sospeso nei pressi della tavolozza, inclinata verso di noi, quasi ostentata, a dimostrare il materiale originario, polveri terre cristalli macinati e legati al collante, con cui la pittura ad olio si realizza, mescolando e trascinando e trasferendo pigmenti sulla punta del pennello, protesi estrema del sistema nervoso del cervello e facendo di essa il punto catastrofico dell’incontro tra la mente e il mondo.
E questa protesi terminale del pensiero (creativo e analitico concettuale!) precipita nel nulla, nel vuoto d’informazione, in direzione di una tela, di cui non sappiamo niente.

Nulla ci aiuta a capire in quale momento del tempo siamo precipitati. Fermo immagine. Tutto, nel sia pure dinamico movimento dei personaggi che fanno ala al pittore, è immobilizzato. Tutto attende. Ogni soggetto di questa complessa macchina visiva aspetta di essere rimesso in moto dalla volontà del regista che sta osservando la disposizione del set: noi, solo noi, siamo nella condizione di far ripartire il senso e il programma della rappresentazione, mettendoci nel luogo medesimo in cui un tempo si erano collocati, immobili, i reali. Questo dipinto è stato fatto esclusivamente per noi.

Da una parte c’è uno specchio che non ci dice nulla del dipinto in atto, così come non ci dice nulla di ciò che compare nell’intera stanza, dall’altra c’è un retro, un dietro, un al di qua del cavalletto e della tela impostata, dove siamo noi.
Noi spettatori, al di qua del dipinto misterioso, ma anche del dipinto di Velázquez. Noi siamo in questo spazio, in cui passa il tempo. Noi apparteniamo a qualcosa che decisamente il quadro non possiede, il tempo.
Da quasi mezzo millennio, noi spettatori cerchiamo di fermare il tempo, collocandoci, davanti al quadro, nello stesso posto dei sovrani.
Sono loro, grazie alla fissità ortogonale del loro sguardo, che ne provoca la metamorfosi da riflesso in icona, in "simulacro vivente", a renderci immortali. Essi, guardandosi allo specchio, ci guardano. Noi guardando il loro riflesso allo specchio, ricambiamo il segreto di questa immortalità dell’opera d’arte che ci rende artisti.
L’artista Giulio Paolini ha perfettamente colto il significato concettuale delle Meninas velázqueziana in due opere famose, a cui rimandiamo (vedi sguardo).

Ma le cose forse son ancora più complicate. Seguiamo cosa ci dice Paolo Spinnici, nel suo Seminario di filosofia sull’immagine (vedi bibliografia).

Di fronte ad argomenti così affascinanti e ricchi di suggestioni come quelli di Foucault e di Searle (John Searle, "Las Meninas and the Paradoxes of Pictorial Representation", Critical Inquiry, Vol. 6, No. 3, 1980 ; tr. francese "Les Meninas et les Paradoxes de la Representation Picturale", Les Cahiers du Musee National de l'art moderne)

può sembrare perfino sgarbato prendere in mano squadra e righello per vedere se le cose stiano davvero così come ci si dice. E tuttavia sarebbe sbagliato non farlo, poiché il gioco di sguardi e di riflessi su cui siamo chiamati a riflettere deve comunque essere percepibile, e può esserlo solo se non si contravviene alla geometria che lo sorregge. Dobbiamo allora chiederci se è davvero lecito sostenere che il punto di proiezione del quadro di Velázquez sia posto di fronte allo specchio. Rispondere a questa domanda non è difficile, poiché Velázquez ci offre più di un indizio per cogliere quale sia il punto di fuga: le lampade sul soffitto, la linea che segna la sua intersezione con la parete alla nostra destra, lo stipite superiore delle finestre, le cornici dei quadri sui pilastri indicano tutti un unico punto - quella mano della figura incorniciata dal vano della porta, cui Velázquez dà risalto sia in termini di luce, sia in termini compositivi. Ma se questo è il punto di fuga, il punto di costruzione di questa prospettiva eccentrica sarà comunque di fronte ad esso, ed è qui - di fronte al vano della porta dipinta - che dovrà idealmente porsi lo spettatore. E del resto come dubitarne, se tante persone rivolgono il volto e lo sguardo verso un identico luogo che fronteggia evidentemente la figura del secondo Velázquez? E se questo è il punto di vista che la costruzione prospettica ci invita idealmente ad assumere, lo specchio - che ci apparirà come una superficie su cui lo sguardo cade obliquamente - non potrà più mostrarci ciò che gli sta di fronte: rifletterà qualcosa che si trova sulla sua destra (o se si preferisce: alla nostra sinistra), come sa chiunque abbia giocato almeno un poco con gli specchi. Rifletterà insomma la grande tela che Las Meninas ci mostra nella sua parte cieca, svelandoci così l'arcano della sua figurazione: il quadro che Velázquez sta dipingendo (o ha appena terminato di dipingere) raffigura la coppia reale. Ne segue che - secondo la migliore tradizione metafisica - lo specchio ci mostra l'immagine di un'immagine, e ciò è quanto dire che lo "sguardo" della riflessione non abbandona affatto lo spazio figurativo del quadro.

E ancora: se lo specchio riflette il dipinto, cosa in più vuole dirci Velázquez? Il cortocircuito tra specchio e quadro potenzierebbe ancor più la figura dell’assenza dei sovrani, come a dirci che tutta l’intelligenza che circola in quel momento storico è del potere, il quale si può permettere di commissionare un’opera nella quale esso è ritratto in seconda battuta. Un potere così colto da permettersi di non farsi raffigurare direttamente e realisticamente, ma solo in chiave metaforica e simbolica!

Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434

Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434

Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, particolare

Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434, particolare

Abbiamo già parlato anche del celebre il Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) di Jan van Eyck, un dipinto ricco di simbolici riflessi, ancorché distorti in uno specchio convesso. Anche in questo caso, lo specchio assume un significato, per così dire, politico: la borghesia illuminata (il mercante lucchese Arnolfini si era stabilito a Bruges nel 1420 e, per meriti commerciali, era stato insignito dal conte Filippo il Buono del titolo di cavaliere; anche la moglie, Giovanna Cenami, era di Lucca; ambedue appartenevano ad una confraternita a cui era iscritto anche il pittore Petrus Christus).
Al contrario di ciò che avviene nell’opera di Velázquez, in questa di van Eyck lo specchio riflette un orizzonte più vasto di ciò che l’occhio fisico può percepire. Siamo sotto il dominio di uno sguardo panottico e potente.

I coniugi, grazie a questo congegno ottico-simbolico, ci guardano guardare colui che li ritrae e che li renderà eterni.
Lo specchio convesso, nel dipinto di van Eyck, assume, per sottolineare questa sua funzione simbolica, una centralità rinforzata da una serie di attributi: innanzitutto la scritta superiore, con cui l’artista segnala orgogliosamente la sua presenza sia dentro l’evento (testimone di ciò che sta avvenendo, atto d’amore, ratifica matrimoniale o quel che sia) sia dentro il dipinto stesso (perfettamente consapevole di ciò che l’opera conterà nella storia dell’arte, van Eyck, con la sua firma e la sua testimonianza quasi notarile, hic fuit Jan Van Eyck, vuol dirci: qui è e sarà per sempre presente l’artista). Al centro dell’evento, testimone effettivo di esso, e allo stesso tempo, al centro del dipinto, testimone del farsi rappresentazione della storia. Contemporaneamente garante del passato, del presente e del futuro.

Gli altri elementi, che servono a rinforzare il significato simbolico della centralità dello specchio, sono la corona intagliata della cornice - che sembra un vero e proprio meccanismo di cattura dello sguardo, un ingranaggio percettivo - e la particolarità delle scenette inserite nella cornice, raffiguranti momenti della passione del Cristo: la sofferenza divina circonda e costringe la vanità al suo destino terreno.
Al centro dello specchio compaiono le figure dei committenti, visti di spalle, e le figure frontali dell’artista stesso e di un suo collaboratore.
Sono presenti, inoltre, nel vitreo riflesso: la riproduzione del lampadario con l’unica candela accesa (simbolo del matrimonio), la finestra e la doppia natura morta, quella inferiore, con più frutta, e quella superiore, composta di un solo frutto, sospesa nello spazio compreso tra interno ed esterno, tra luce artificiale e luce naturale, tra calore domestico e atmosfera forse già più fredda dell’autunno (la frutta sta maturando…).
Lo specchio cerca di raccogliere in se tutto il visibile! Riesce persino a riflettere ciò che gli sta immediatamente vicino, il divano sottostante, che diventa, nella distorta prospettiva anamorfotica una straordinaria linea rossa, che si congiunge, senza soluzione di continuità, con il colore del baldacchino nuziale.

Petrus Christus, Sant'Eligio nella bottega di un orefice, 1499, Metropolitan Museum, New York

Petrus Christus, Sant'Eligio nella bottega di un orefice, 1499, Metropolitan Museum, New York

Petrus Christus, Sant'Eligio nella bottega di un orefice, 1499, Metropolitan Museum, New York, particolare

Petrus Christus, Sant'Eligio nella bottega di un orefice, 1499, Metropolitan Museum, New York, particolare

Lo stesso tipo di specchio convesso appare sul banco del negozio di orefice nel Sant’Eligio nella sua bottega (1449, coll. Lehman, New York) di Petrus Christus.
In questo caso lo specchio convesso non rimanda le immagini dell’interno, ma, come una vera e propria telecamera di controllo, l’informazione di ciò che avviene all’esterno, sulla strada, a filo del davanzale. La bottega è aperta sulla strada e la sicurezza non è mai abbastanza…, anche per un santo.
Ma ciò che m’interessa rilevare è quest’improvviso squarcio di cronaca quotidiana: due donne stanno avanzando ed io m’immagino quello che si stanno dicendo. Stanno facendosi delle confidenze, l’oggetto delle loro parole e dei loro pensieri è proprio l’orefice. Sembra di poter cogliere quella che James Joyce avrebbe potuto chiamare un’Epifania, una repentina apparizione di parole e di suoni, estrapolati da un contesto più ampio. Micro eventi! Parole o gesti che appaiono o risuonano momentaneamente nell’aria, per subito perdersi, se non ci fossero le orecchie e gli occhi dell’artista a fissarne repentinamente, per l’eternità, il fenomeno.

Quentin Metsys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514, Louvre, Parigi

Quentin Metsys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514, Louvre, Parigi

Quentin Metsys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514, Louvre, Parigi, particolare

Quentin Metsys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514, Louvre, Parigi, particolare

In quest’opera di Quentin Metsys intitolata Il cambiavalute e sua moglie, 1514, Louvre, Parigi, un uomo e una donna di estrazione borghese sono intenti a soppesare con infinita cura del denaro di cui debbono saggiare il valore.
Tutti i dettagli dell’arredamento e degli strumenti sono perfettamente incisi.
Lo specchio ci rivela la presenza di un personaggio e di una finestra.

Seguiamo l’analisi che ne fa Schinnici, nel suo seminario:

Tanto lo sfondo che ritrae alcuni libri e gli strumenti del loro mestiere, quanto l'attenzione che il pittore ha dedicato ad illustrare i dettagli in cui si scandisce la prassi meticolosa del loro lavoro sembrano dare al quadro una valenza eminentemente descrittiva: Metsys ha voluto mostrarci un mestiere e la meticolosità consapevole di chi lo esercita. Ad un piccolo specchio convesso che può facilmente sfuggire alla nostra attenzione spetta tuttavia il compito di aprire la descrizione ad un'imprevista eco narrativa: lo specchio ci mostra infatti il volto preoccupato di un uomo che ha sicuramente a che fare con le operazioni del cambiavalute, ed una volta che questo dettaglio ci abbia colpiti è difficile negare alla scena una diversa drammaticità. Ora che abbiamo visto nello specchio disegnarsi quel volto, sospettiamo quale sia lo sfondo di quel contare che si accompagna ad una così serena lettura dei testi sacri! E tuttavia, per quanto significativa sia qui la cesura tra ciò che è raffigurato al di qua e al di là della cornice e per quanto questa scansione in uno spazio primario e in uno spazio secondario sia necessaria per dare all'immagine la complessità di significato che le spetta, resta egualmente vero che l'intera scena avrebbe potuto cadere sotto un unico sguardo. Abbiamo a che fare allora con una riflessione che è sì esterna allo spazio fattualmente racchiuso dalla cornice ma che non pretende per questo di infrangere ma solo di ampliare lo spazio figurativo in quanto tale. Parleremo allora di una riflessione solo accidentalmente esterna o, se si preferisce avvalersi di un linguaggio più "filosofico", ontologicamente interna. In questo, infatti, il rispecchiamento interno e il rispecchiamento accidentalmente esterno coincidono: nel loro additare un luogo che non implica uno scarto ontologico rispetto alla sfera rappresentativa in quanto tale.

Caravaggio, La conversione della Maddalena, ca. 1597-1600, Detroit, Detroit Institute of Art

Caravaggio, La conversione della Maddalena, ca. 1597-1600, Detroit, Detroit Institute of Art

In quest’opera del Caravaggio (già oggetto di dispute attribuzionistiche) sono raffigurate le sante Marta e Maddalena. Marta, vestita modestamente, sta elencando alla bella ed elegante sorella, numerandoli sulle dita, i miracoli del Cristo.
La decisione di convertirsi è grave, la scelta cambia la vita. Il salto è tra la voluttà dei sensi, e dei beni materiali, e la virtù dello spirito. Caravaggio sottolinea questo dramma, ma la scelta sembra già avvenuta: lo specchio, che tradizionalmente simboleggia la vanità, riflette una luce misteriosa, un riquadro quasi abbagliante, verso cui già si tende la mano sensuale di Maddalena.
Lo specchio convesso rivela la luce del divino, facendo scomparire ogni altra immagine riflessa. L’ambiente con il suo arredo è sparito, gli unici oggetti son quelli deposti davanti allo specchio. La luce che illumina Maddalena proviene dalla nostra sinistra, tagliando diagonalmente la scena. Ma è una luce che prende letteralmente fuoco solo sulla nera convessità dello specchio. Pura luce, che non proietta che l’immagine di se stessa, astratta, spirituale!

Caravaggio, Narciso, prob. 1597-99, oppure 1546-48, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma

Caravaggio, Narciso, prob. 1597-99, oppure 1546-48, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma

Il dipinto, intitolato Narciso, di Palazzo Barberini, forse dello stesso periodo del precedente, dopo molte traversie critiche, non ancora del tutto sopite, è stato definitivamente attribuito a Caravaggio, di cui, secondo me, rappresenta una delle opere più significative. A noi interessa, qui, analizzare principalmente il tema rappresentato dall’artista.
Il giovane è raffigurato in una posizione molto tesa, sembra quasi che stia per cadere in avanti, attratto dalla bellezza della sua stessa immagine. Le labbra sono socchiuse. La braccia sono aperte, quasi a circondare lo specchio dello stagno, ma una mano è già immersa (sensualmente …) nell’acqua. Il volto è un po’ girato di lato, lo sguardo assume, per questa lieve e quasi impercettibile torsione del capo, un carattere più intenso e drammatico.

Lo specchiarsi è narcisistico. Ma da dove nasce il Narciso? Da uno stagno e da un riflesso. La storia, così come ce la racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi, p. 339-512, prende l’avvio da quella profezia terribile che il vate Tiresia pronuncia sul destino del giovane Narciso: "Interrogato su di lui, se avrebbe visto il tempo di una lunga, matura vecchiaia, l’indovino fatidico disse: se non conoscerà se stesso".
Ammonizione doppiamente grave ed emblematica, perché allude alla necessità di conoscere l’altro, "colui che è altro da noi", provocatoriamente in antitesi con quanto era inciso sull’architrave del tempio di Apollo a Delfi, Conosci te stesso.
"Sembrò a lungo vana la voce del vate – prosegue Ovidio – ma la confermò il seguito, i fatti, il tipo di morte e la singolare follia".

Come si sa, Narciso viene scorto, mentre sta cacciando, dalla ninfa Eco (la quale era stata condannata da Giunone a ripetere solo le ultime parole dei discorsi uditi, per punzione del fatto di aver coperto i tradimenti di Giove trattenendo in lunghi colloqui la gelosissima consorte); Eco subitamente s’innamora di lui; Narciso la rifiuta e fugge; Eco muore, tramutando le ossa in sassi; solo la sua voce sopravvive, ma per continuare a ripetere vanamente solo gli ultimi suoni rimasti sospesi nell’aria.
Narciso è colpito dalla maledizione di quanti, tra le ninfe e tra i giovani, avevano in qualche modo partecipato al tragico destino di Eco: che anche lui non possieda mai chi amerà!
Si giunge così al fatidico giorno in cui Narciso vedrà la propria immagine riflessa in uno stagno: mentre cerca di placare la sete, un’altra sete lo coglie e, rapito dalla bellezza che vede riflessa, se ne innamora perdutamente. Dice Ovidio: "Desidera, ignaro, se stesso, ammira e lui stesso è ammirato, e mentre brama è bramato e insieme infiamma e riarde".

Il giovane lentamente si consuma nell’impossibile amore: l’immagine non è il reale, la sua immaterialità è crudele. Narciso se n’è accorto: "Mi prometti non so che speranza con volto amichevole e quando ti tendo le braccia anche tu me le tendi, quando sorrido sorridi. Spesso ho anche notato le tue lacrime, mentre piangevo; e mi rimandi anche cenni con la testa e, a quel che posso dedurre dal movimento della bella bocca, mi rimandi parole che non giungono alle mie orecchie. Ma costui sono io! L’ho capito, e non m’inganna il mio riflesso".

Narciso ha perso il mondo (Caravaggio, nel dipinto Barberini, come possiamo constatare, non raffigura alcuno sfondo, dietro la figura recline del giovane), affondando l’occhio nella contemplazione di sé; il cerchio s’è chiuso; tra immagine e realtà si è stabilito il mortale contatto ravvicinato: l’immagine mimetica uccide la realtà proprio in quanto la imita, la ripropone, senza alcuna differenza, quella differenza che sempre è critica, oppositiva, distintiva. L’immagine che non imita e non ripete specularmente il mondo è, infatti, sempre un’analisi, è sempre in analisi!

Il volto del Narciso è troppo vicino al proprio riflesso, troppo immerso nella propria contemplazione, escludendo il mondo circostante; il particolare (il sé) per l’universale. L’apparente messa a fuoco del sé sfoca lo sfondo per sempre.
"Che fare – si domanda agonizzante Narciso – Chiedere o essere chiesto? E cosa poi chiedere? Quello che bramo è con me; la mia ricchezza mi rende povero".

Solo l’allontanamento dallo specchio, solo il distanziamento dall’immagine (oggi potremmo dire, tout court, dal medium …), potrebbe permettere di riconquistare il rapporto di alterità con il riprodotto e la coscienza dell’inconciliabilità tra il rappresentato e il vissuto.
"Oh, se potessi separarmi dal mio corpo! – esclama, alla fine, Narciso – Desiderio singolare in un amante, vorrei che ciò che amiamo fosse lontano".

Per giungere all’arte moderna, dobbiamo prendere in considerazione un quadro molto importante di Juan Gris, un artista forse non così importante come Picasso e Braque nella costituzione del movimento cubista, ma capace di soluzioni straordinarie, dal punto di vista concettuale, come è dimostrato dall’opera seguente.

Juan Gris, Le lavabo, 1912, collezione Vicomtesse de Noailles, Parigi

Juan Gris, Le lavabo, 1912, collezione Vicomtesse de Noailles, Parigi

Vera rivoluzione concettuale, quella realizzata dall’artista Juan Gris, in quest’opera intitolata Le lavabo del 1912 (collezione Vicomtesse de Noailles, Parigi).
In essa l’artista cubista colloca, nella parte superiore della composizione – il cui schema strutturale è basato sulla applicazione della sezione aurea – uno specchio reale.
Immagine stupenda del rovesciamento del rapporto tra la rappresentazione pittorica e il mondo. Per il pittore cubista non è più il mondo a contenere l’arte, ma è essa a racchiudere dentro di sé il mondo.
È l’arte ad assumere una sorta di centralità copernicana del senso del mondo, il quale su di essa si riflette per controllarsi e prendere le misure. Di fronte all’arte il mondo non può che ritrarsi: vedervisi criticamente ritratto e ritrarsi in posizione difensiva!

L’arte è implacabile. Non perdona.

Il dipinto di Gris invita, con il suo richiamo alle abluzioni, ad un nuovo rito di purificazione, per liberare l’arte in tutta la sua potenza.

L’arte contemporanea sollecita gli specchi a riflettere ulteriormente sulla loro natura ambigua e illusiva.

Due artisti, ambedue legati all’Arte povera (la denominazione è dovuta al titolo di una mostra organizzato a Genova nel 1967 dal critico Germano Celant), Anselmo e Pistoletto, hanno riflettuto sui riflessi…

Anselmo vi dedica un’opera intensa e drammatica, Pistoletto ne farà un motivo quasi ricorrente dell’intera produzione.

Giovanni Anselmo, Lato destro, 1969-71

Giovanni Anselmo, Lato destro, 1969-71

In quest’opera, l’artista presenta il proprio autoritratto come se si stesse guardando allo specchio. Poiché si ritiene che allo specchio l’immagine appaia rovesciata, l’artista si è prefisso di ingannare la distorsione percettiva, scrivendo sul suo lato destro la scritta che lo identifica come tale. Per far sì che le parole appaiano dritte per chi guarda l’immagine riflessa è necessario, tuttavia, che esse siano scritte alla rovescia.

Ma lo specchio, in realtà, non inganna.

Quando guardiamo una persona davanti a noi, la vediamo con il suo lato sinistro, quello del cuore, per intenderci, alla nostra destra, mentre, quando ci si specchia ci si vede con il lato sinistro alla propria sinistra!
Per questo motivo le immagini speculari non invertono affatto la sinistra con la destra, così come, d’altronde, non capovolgono l’immagine da sopra a sotto, ma il davanti con il dietro.
Se prendiamo una carta semitrasparente e la collochiamo, con una scritta, tra noi e lo specchio, noi potremmo leggere correttamente ciò che vi appare.

Paradosso degli specchi: essi, che duplicano, non ingannano; perciò, anche coloro che se ne occupano, dovrebbero riflettere un po’, prima di giudicarli…

Prendiamo ora in considerazione Michelangelo Pistoletto, l’artista che maggiormente ha indagato la magia degli specchi. Il lavoro di Pistoletto, del quale vengono soprattutto ricordate - giustamente, ma senza per ciò dover dimenticare l’eterogeneità e la vastità della sua produzione -, le opere realizzate utilizzando superfici riflettenti, su cui lo spettatore vede improvvisamente riflessa, con improvvisa inquietudine, la propria immagine accanto a quella di qualche figura che vi è serigrafata. è stato anticipatore, assieme a quello di alcuni altri artisti, come Mario Merz, della corrente denominata Arte Povera, che si diffuse in Italia nella seconda metà degli anni Sessanta, intrecciandosi spesso con la poetica dell’Arte Concettuale. In ambedue questi movimenti artistici, ciò che prevale è la tendenza verso la riflessione filosofica e la ribellione nei riguardi della ricchezza consumistica.
Dopo un primo periodo di produzione pittorica, quasi sempre avente come motivo il proprio autoritratto, la prima opera decisamente innovativa di Pistoletto è uno specchio, su una parte della cui superficie egli riproduce, mediante una tecnica di riporto fotografico, la propria immagine (1961).
Da quel momento, lo specchio diventerà uno dei materiali più usuali nelle sue opere, sia come supporto di immagini riprodotte, sia come oggetto in se stesso, messo in esposizione per quello che è, tutto d’un pezzo o tagliato in parti, con la funzione di riflettere l’ambiente in cui si trova inserito e il visitatore che vi sosta davanti.

Una vera e propria gabbia percettiva!

Michelangelo Pistoletto, Cage, 1962-1972

Michelangelo Pistoletto, Cage, 1962-72

L’opera qui riprodotta, presentata alla Biennale di Venezia del 1993, è, non a caso, intitolata Cage, gabbia (1962-72).
La superficie specchiante costituisce il "luogo" simbolico con cui Pistoletto instaura un dialogo con il mondo, usandone i riflessi. Sullo specchio, figura rappresentata e figura riflessa si amalgamano per un attimo: lo spettatore improvvisamente vede se stesso come "altro", immagine tra le immagini. Osservatore osservato, lo spettatore diventa in parte attore, se non quasi autore, di sempre nuove composizioni percettive e simboliche. Privo di memoria, lo specchio incontra, dentro la sua cornice, la repentina apparizione del visitatore, facendogli capire che anch’egli, come l’immagine riflessa, è un’entità fugace, qualcosa di effimero che passa.

Michelangelo Pistoletto, L’architettura dello specchio, 1990, Torino, Castello di Rivoli

Michelangelo Pistoletto, L’architettura dello specchio, 1990, Torino, Castello di Rivoli

Per Pistoletto, come per altri artisti, una delle "figure" più inquietanti e, proprio per questa ragione, più promettenti di sviluppo artistico, è il "doppio".
Quasi tutte le sue opere sviluppano quest’idea del doppio, sia da un punto di vista tecnico sia da un punto di vista concettuale.

Michelangelo Pistoletto, L’etrusco, 1976, Collezione Goetz, Monaco

Michelangelo Pistoletto, L’etrusco, 1976, Collezione Goetz, Monaco

Prendiamo un esempio significativo, la scultura intitolata L’Etrusco. L’Etrusco (un’opera costituita da una copia della celebre scultura etrusca, il cosiddetto "Arringatore del Trasimeno") è collocato davanti ad un grande specchio, verso il quale sembra protendere la mano quasi a volerne provare la superficie: davanti alla vuota retorica del politico, non c’è che il suo stesso riflesso, un esercizio di perfetta e tragica vanità.

Michelangelo Pistoletto, La venere degli stracci, 1976, Tate Modern, London

Michelangelo Pistoletto, La venere degli stracci, 1976, Tate Modern, London

La scultura della Venere degli stracci (1967), posizionata, in una delle molteplici versioni dell’opera, davanti ad uno specchio, è, addirittura, un duplice "doppio", essendo sia una copia di un originale sia anche un riflesso promanante dallo specchio; in ambedue i casi si tratta di un vero e proprio inganno di sostanza, di qualità e di percezione.

La tecnica usata da Pistoletto merita un commento.
Dapprima usando una sagoma di leggerissima e porosa carta velina dipinta, e quindi una vera e propria fotografia, comunque sempre servendosi di carte opache, e in seguito serigrafando le immagini direttamente sulla lastra di acciaio inossidabile o di vetro, Pistoletto realizza una tipologia figurativa dal significato sempre più inquietante, perché chi si specchia, e vede accanto alla propria immagine quella di un altro soggetto, percepisce con spietata evidenza la differenza tra ciò che appartiene ormai al passato e ciò che è temporalmente presente. Ma ambedue queste dimensioni sono contemporaneamente illusorie: una è un falso riflesso, l’altra è un falso ritratto, casuale ed evanescente. La vanità dell’arte e quella dell’uomo si scambiano le parti in una sorta di rappresentazione teatrale dell’assurdo.

Pistoletto avrebbe voluto, inizialmente, intitolare tutte le sue opere specchianti, "Presente", a significare l’esplosiva esperienza che il soggetto compie scoprendo se stesso davanti a sé, in tempo reale e in maniera improvvisa ed inaspettata. Ma il tempo del riflesso è sia presente sia passato: è presente in quanto avviene nell’attimo in cui ci si specchia, ma è anche passato, perché qualsiasi cosa io veda, proprio in quanto vista, appartiene, per quanto infinitesimamente prossima, a ciò che è irreversibilmente trascorso.

Marina Abramovic, Cleaning the mirror, Video peformance, 1995

Marina Abramovic, Cleaning the mirror, Video peformance, 1995

In una mostra, intitolata Oltre la scultura (realizzata nell’ambito della Biennale di Padova del 1995), avevo collocato l’opera di Marina Abramovic, Cleaning the mirror, una video performance del 1995 - nella quale l’artista giace abbracciata ad uno scheletro, che si muove al ritmo del suo respiro e al sollevarsi del suo seno (la morte è l’ultimo specchio in cui ci si può guardare, il limite estremo della Vanitas, là dove si incrociano filosofie zen e pratiche barocche...) - di fronte allo spazio occupato dai tre reliquiari e alla proiezione sul soffitto della registrazione di una delle ultime operazioni chirurgiche di Orlan.
Tra queste due opere, che hanno ambedue a che fare con mortali riflessi, viene a determinarsi un ulteriore rispecchiamento fatale, una "coincidenza predestinata", come l’ha definita la stessa Orlan. Un rispecchiamento che lascia intravedere, sullo sfondo dello specchio, la famiglia più estesa degli artisti che meglio esprimono il sentimento attuale della mutazione epocale: Antunez, Stelarc, Jana Sterbak, Matthew Barney, David Bowie, Joel Peter Witkin, Laurie Anderson, David Cronenberg, Marc Quinn, Damien Hirst, Jake e Dinos Chapman...

In Cleaning the Mirror, Marina Abramovic vuole dimostrare quanto intimamente collegati siano il corpo e il video; in questa manieristica esposizione della morte, la carne e lo scheletro si rifondono attraverso l’orgasmatico respiro della vita artificiale dello spazio televisivo, non più medium o interfaccia tecnologica, ma dimensione totale, assoluta, che non abbisogna di altro per farsi realtà.
Si tratta di un’opera che rimanda concettualmente ad una delle più intense video performance della Abramovic, di vent’anni anteriore, Art Must be Beautiful, Artist Must be Beautiful (1975); in essa l’artista, dapprima sussurrando e infine urlando, dapprima spazzolandosi ed infine colpendosi i lunghi capelli con una spazzola dalle setole di ferro, si domanda, anzi ci domanda, perché l’arte e l’artista debbano ancora rispondere a questa tragica, mortale, richiesta di bellezza. Ora, con l’opera del 1995, Cleaning the Mirror, il rito si conclude: la bellezza del corpo nudo della artista si stringe in un abbraccio osceno con la morte che esso contiene.

Ma, attenzione, non vi è nulla di conclusivo, si tratta di un amplesso senza orgasmo e dunque di una relazione... critica, ai bordi estremi della vita e dell’arte.

Bibliografia