Tecnica

In Occidente, le due culture, che sono state il fondamento della civiltà europea, quella greca e quella romana, avevano usato due termini dal suono e dall’etimo molto diversi per definire questo concetto: tèchne e ars, due parole che, sia pure con qualche differenza, significavano tuttavia ambedue la capacità di fare qualcosa, e, più esattamente, la capacità di realizzare un oggetto materiale - dalla nave ad un edificio, da una statua ad un vaso - e anche l’abilità di compiere delle azioni, come governare una nave, comandare un esercito o convincere degli ascoltatori.
Solo in epoca relativamente moderna i due termini, tecnica e arte, saranno utilizzati per esprimere due concetti molto diversi, il primo per indicare il modo di lavorare, di produrre e di realizzare un oggetto, nonché la serie di norme che ne regolano lo svolgimento (più tardi la parola significherà anche una speciale attività umana, dipendente dalla conoscenza scientifica, volta alla creazione di strumenti e congegni capaci di semplificare il lavoro e la produzione e di migliorare le stesse condizioni di vita), il secondo per intendere essenzialmente l’attività creativa dell’individuo, esercitata mediante l’applicazione di tecniche particolari, fondata sullo studio e l’esperienza, e volta alla realizzazione di prodotti culturali e di comportamenti, oggetto di giudizi di gusto e di valore.

Ambedue queste categorie hanno avuto una trasformazione concettuale, con l’avvento dell’elettronica e della complessiva dimensione della tecnologia, assolutamente irreversibile.

D’altronde non solo le cose prodotte dall’uomo, ma anche i concetti mutano continuamente. Per limitarci all’aspetto puramente "tecnico-produttivo" dell’umanità, si pensi a quanto esponenzialmente celere sia stata fino ad oggi l’evoluzione della produzione "tecnica" dell’uomo, verificabile nel computo delle generazioni che sono trascorse tra le grandi tappe della storia:

Non i miti, ma le Tecniche segnano, da sempre, il tempo dell’umanità e proprio le Tecniche potrebbero essere lo strumento per definire le maggiori variabili antropologiche, che si sono succedute dalla prima scheggiatura della pietra ad oggi.
Stelarc, nelle sue conferenze e nei suoi scritti, sostiene una tesi che è, in realtà, ampiamente nota agli studiosi di antropologia sociale: l’evoluzione biologica dell’uomo, così come esso è oggi strutturato, si è come interrotta, per l’incapacità della natura di adeguare in tempo utile il corpo ai nuovi mondi artificiali, che lo circondano e che minacciano di isolarlo, e di evolvere organi biologici capaci di rispondere a queste nuove e improvvise sollecitazioni funzionali e operative.
Mediante il supporto funzionale di apparati tecnologici estensivi ed intensivi il corpo post-umano può ricominciare un nuovo ciclo evolutivo, nel corso del quale le parti protesiche si perfezioneranno a tal punto da diventare parti integranti e sempre più inscindibili dello stesso sistema biologico.

Una frattura, un taglio irricucibile, una catastrofe, per essere più precisi, contraddistingue la tecnica attuale, come è possibile constatare in ogni prodotto che appare sul mercato. E, se è vero che ogni innovazione è, in fondo, l’aspetto più immediato e appariscente di superamento della tradizione e la sua migliore forma di critica, è anche vero che nessuno più mette in previsione la necessità "sociale" della specifica invenzione e l’analisi dei suoi effetti consequenziali: ogni innovazione o "invenzione" nel campo informatico, per esempio, aumenta sempre più la differenza e la distanza tra nazioni ricche e povere e tra ricchi e poveri all’interno della stessa nazione. Per questo motivo si parla di tecnica e non di scienza, poiché la differenza tra queste due categorie (dello spirito…) sta nel fatto che alla scienza competerebbe sempre una finalità positiva, attenta, mirata al bene, nient’affatto neutrale e assoluta dai bisogni dell’uomo, della società e della vita stessa del pianeta.
L’innovazione attuale è talmente accelerata e talmente diffusa da non risultare quasi più evidente e visibile. C’è una sorta di invisibilità del nuovo: le forme cambiano con tale celerità da non generare più sorpresa e da provocare, al contrario, un’abitudine progressiva al cambiamento. Il cambiamento è diventato consuetudine, determinando il paradosso di una tradizione della novità!
Ma guai abbandonarsi al godimento della novità, senza riflettere cosa essa comporti complessivamente, come conseguenze immediate e future.

Una delle caratteristiche più evidenti dell’epoca attuale è l’indiscutibile predominio della tecnica in ogni settore dell’esistenza umana e in tutte le altre forme di vita del nostro pianeta. Nell’accelerare il cambiamento irreversibile della società, l’attività della tecnica risulta essere stata molto più efficace della politica e della religione, i due grandi modelli propulsivi della modernità.
Lo stesso François Lyotard ha ribadito in più occasioni (il testo chiave, La condition postmoderne, risale al lontano 1979), la sparizione di quelli che sono stati chiamati i grandi modelli interpretativi della modernità, la storia, la religione, la politica: una sparizione che si somma alla perdita del mito morale della scienza, completamente succube dell’operato performativo della tecnica.

Ma la questione della tecnica è ancora infinitamente più complessa. Ad aver aperto il sipario sulla pericolosità estrema di essa sono stati alcuni scienziati, che proprio con la tecnica, in svariati modi, hanno direttamente a che fare. Indipendentemente da questo punto di vista, anche i filosofi attuali hanno affrontato l’insidioso tema.
Tra questi, in maniera esemplare, Emanuele Severino (Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998) e Umberto Galimberti (Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999).

Possiamo dire che la nostra conoscenza del mondo avviene grazie alla mediazione continua operata dal sistema generale dell’informazione, che non si limita a registrare gli eventi, ma li commenta e li organizza in comunicazione (in programmi e in palinsesti)!
Esso, a sua volta, unifica fenomeni culturali, economici, commerciali e produttivi nell’obiettivo di concorrere al progetto di globalizzazione del mondo mediante una diffusione capillare di marchi (vedi logo), di merci e di comportamenti, riconducibili ad un unico modello di vita, di tipo capitalistico.
La società è, dunque, diventata completamente trasparente in quanto messa a nudo dal mercato planetario, che progressivamente invade ogni paese, ogni nazione, ogni popolazione, con le medesime merci e con gli stessi modelli culturali. Non possiamo più sperare nel futuro, in quanto esso è già qui, tutto presentificato, svelato e preannunciato dalla capacità della tecnica di prevedere il nostro desiderio. La tecnica precede il desiderio.
Il disvelamento del futuro potrebbe essere dato solo alla condizione di riuscire a risolvere il dilemma del capitalismo: portare la tecnica al suo massimo sviluppo, che può prevedere anche la distruzione dell’uomo, oppure ostacolare lo sviluppo autonomo e indipendente della tecnica per organizzare un diverso destino del mondo, ma mutando radicalmente se stesso?
O il capitalismo - afferma Severino (p. 65) - si convince del proprio carattere distruttivo, e cerca di conciliare il proprio profitto con la salvezza della Terra, oppure assume come scopo la sintesi del profitto e dell’innovazione tecnologica – rinunciando così, in entrambi i casi, al proprio scopo e dunque a se stesso.
Dal canto suo, la tecnica, diventata da mezzo "fine", tende – anche secondo Galimberti (pa. 399) – soprattutto alla propria autoriproduzione e al proprio incessante, implacabile, irrefrenabile potenziamento, tant’è vero che le trasformazioni e le mutazioni irreversibili provocate dalla tecnica in ogni settore della vita umana e sulla stessa natura del pianeta costituiscono uno degli aspetti più inquietanti e pericolosi dell’epoca postmoderna.

Fredric Jameson (Fredric Jameson, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, 1984, tr. it. di Stefano Velotti, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989), pur da un punto d’osservazione particolarmente critico nei riguardi del postmodernismo, lo ha direttamente collegato alla specifica cultura del tardo capitalismo fondato sulla tecnica, ovvero di un capitalismo che non è più caratterizzato soltanto dall’appropriazione, progressiva e incessante, di profitti, e dalla produzione e consumo di merci, ma che è rappresentato soprattutto dalla produzione tecnica e non più artistica di segni e di immagini: segni-merce ed immagini-merce, che appaiono definitivamente svincolati dal cosmo dei significati simbolici, che il soggetto culturale moderno era solito attribuirvi, possibilmente all’interno di un "sistema" ordinato.

La sparizione di ogni simbolicità mette a nudo la pura entità materiale della cosa, slegata dalla sua relazione profonda, psichica, semantica e culturale con il soggetto!
Se nulla più è velato dalla stratificazione di senso che il soggetto moderno sapeva criticamente individuare, significa che ogni oggetto, così come ogni fenomeno, appartengono soltanto ad un codice estetico esteriore, determinato dalle logiche produttive, comunicazionali e pubblicitarie, che ne guidano il consenso a livello planetario e ne determinano il consumo.

Una serie di articoli, apparsi negli ultimi mesi su numerose riviste di scienza e di filosofia della tecnica, hanno cercato di metterci in guardia, ma vanamente, su quello che da alcuni scienziati è considerato come un probabile punto di non ritorno dell’evoluzione della tecnica: essa potrebbe non essere più controllabile dall’uomo, avendo raggiunto una dimensione smisurata, anomala, imprevedibile ed essendo ormai in gran parte svincolata dai procedimenti sperimentali del metodo scientifico. Per Hans Moravec, uno dei leader della ricerca robotica, gli umani potrebbero essere destinati, nel giro di non moltissimi decenni, all’estinzione, dopo una graduale e progressiva fusione con sistemi intelligenti, robot e organismi progettati, capaci alla fine di autoreplicarsi autonomamente.

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Bill Joy, Why Future Doesn’t Need Us?, in Wired, Aprile 2000

Utilizzando l’argomento di un articolo particolarmente allarmante di Bill Joy, la rivista Wired, circa un anno fa, intitolava decisamente un suo numero: Why Future Doesn’t Need Us?, April 2000, pp.238-262).
Per essere il più possibile incisiva, come da tradizione della rivista, la copertina è risolta utilizzando un’immagine di tipo artistico, la riproduzione di un ritaglio di pagina strappata da un ipotetico vocabolario del futuro, in cui, nonostante le stropicciature e le pieghe della carta, è ancora possibile leggere il testo, riguardante il lemma della parola "human": aggettivo riferito alla specie dell’Homo sapiens, un bipede estinto, dall’anatomia basata sul carbonio…
Di esso non rimarrebbe che il nome, indicante l’ultima fase paleontologica della sua evoluzione, prima della sua sostituzione con altre forme di vita, basate su un diverso principio costitutivo, per esempio il silicio.

La mutazione biologica dell’uomo, in direzione di una sua progressiva artificializzazione, è ormai incontrovertibile.

La preoccupazione sollevata da Bill Joy, nell’articolo citato, consiste addirittura nell’ipotesi, condivisa da altri scienziati, di una possibile scomparsa del genere umano, provocata dal predominio di alcune tecnoscienze, sfuggite definitivamente al nostro controllo, se non corriamo ai ripari. Se non prendiamo misure adeguate.

Questo tragico e possibile destino sarebbe accelerato da due ordini di fattori: il primo, determinato dalla constatazione che gli scienziati informatici stanno sviluppando macchine sempre più intelligenti, e il cui compito dovrà essere quello di assumersi ogni tipo di lavoro, un tempo appannaggio degli umani. Alle macchine potrebbe essere permesso, ad un certo momento, di prendere tutte le proprie decisioni senza la supervisione umana. A quel punto il destino della razza umana sarà alla mercè delle macchine. Visto che la società e i suoi problemi diventano sempre più complicati e le macchine sempre più intelligenti, sarà quasi automatico che ad esse possano essere attribuiti compiti anche molto sofisticati. A quel punto si arriverà ad uno stadio in cui le decisioni da prendere per mantenere il sistema saranno così complicate che gli esseri umani non saranno in grado di farlo in modo altrettanto "intelligente"!
E, qualora, fosse ancora possibile un controllo da parte umana, a questi livelli di attività decisionale delle macchine (il concetto di macchina è ovviamente metaforico), chi – si chiede allarmato Joy – se non una élite superiore, potrebbe detenere un tale potere?

Il secondo fattore di rischio per la sopravvivenza del genere umano, anche secondo il parere di altri scienziati coinvolti da Joy in queste congetture, è che le specie biologiche quasi mai sopravvivono allo scontro con competitori superiori.
I competitori superiori potrebbero essere una coalizione di tre tecnoscienze, sfuggite al controllo umano: la robotica, la nanotecnologia e la genetica. Queste tre tecnologie (si noti che non si citano come "scienze"!) saranno e già sono così pericolose, in quanto "il solo sapere – non il possesso di complessi laboratori – ne permette l’uso": piccoli gruppi, non grandi concentrazioni scientifiche possono farne un utilizzo imprevedibile per l’umanità.
L’incontro tra robot intelligenti (si prevede che, nell’arco di tre al massimo quattro decenni, così procedendo le ricerche, le macchine saranno milioni di volte più potenti di oggi) e pratiche di manipolazione genetica potrebbero, secondo quest’ipotesi drammatica, procedere ad un "graduale ed irreversibile ridisegno del mondo".
I robot, infatti, potrebbero riprodursi (facendo copie di se stessi) con progressivi e incessanti miglioramenti. Nel contempo, come già stiamo in parte assistendo, la creazione di migliaia di nuove forme di vita, batteri, virus, piante e animali (più del 50 per cento della soia del mondo e del 30 per cento del mais contiene geni provenienti da altre forme di vita, non necessariamente vegetali), annichilisce tutte le nostre nozioni sul senso e il concetto di vita.

Il nostro trasferimento nello spazio, nel quale siamo già capaci di sostare per lunghi mesi, determinerà profonde alterazioni biologiche, tanto che gli attuali cosmonauti risentono di danni alle ossa a causa del tempo trascorso in assenza di gravità: a cosa serve, infatti, lo scheletro, quando i movimenti del corpo possono essere funzionalmente assistiti dalle macchine in una dimensione senza peso e nella quale si potrebbe più agevolmente spostarsi come una medusa o un polipo?
Tra non molto si realizzeranno i primi insediamenti su pianeti e satelliti artificiali e naturali. Quali saranno, se ci saranno, le opere artistiche e gli elementi decorativi di queste inedite architetture e quali saranno i corpi che li abiteranno? Saranno dei corpi biologici, dei corpi tecnologici, dei corpi virtuali o dei corpi mutanti? Sulla plancia di comando di queste nuove navi, potrà ancora trovare collocazione il disegno dell’angelo di Paul Klee, che Benjamin portava sempre con sé, a rammemorare continuamente, con il suo capo volto all’indietro, le macerie provocate dalla storia e dal progresso?
Quali sono, pertanto, le nuove forme simboliche di rappresentazione all’interno della società spettacolare e mediatica, caratterizzata dall’intreccio tra scienza, tecnologia e nuove estetiche comportamentali e quali arti "moderne" sopravvivranno nello spazio extraterrestre ed in quello elettronico?
Quanto segue individua una serie di coordinate concettuali, a partire dal riconoscimento della sparizione progressiva dei corpi fisici, delle materie atomiche e delle merci pesanti e, nello stesso tempo, nella constatazione della parallela espansione di dimensioni immateriali, di merci imponderabili e di virtualità esistenziali, determinanti estetica!

Ma è pur vero che le cose sono! E che di esse ci circondiamo con sempre più grande piacere. Questo avviene perché la nostra distanza dalle cose, prodotte dalla tecnica, non è più così distante come in passato. La tecnica ha messo l’anima nelle cose, dotandole di sensibilità quasi organica. L’analisi di Mario Perniola al riguardo è esemplare: Darsi come una cosa che sente e prendere una cosa che sente, questa è la nuova esperienza che si impone al sentire contemporaneo [..]. Ciò che suscita inquietudine e costituisce un enigma è proprio il confluire in un unico fenomeno di due dimensioni opposte, quali il modo di essere della cosa e la sensibilità umana: sembra che le cose e i sensi non si combattano più tra di loro, ma abbiano stretto un'alleanza grazie alla quale l'astrazione più distaccata e l'eccitazione più sfrenata sono quasi inseparabili e spesso indistinguibili (Mario Perniola, Il sex-appeal dell’inorganico, Einaudi, 1994).
Le cose prodotte dalla tecnica sono, dunque, "quasivive" e dimostrano di essere riuscite a vincere finalmente quel senso di morte che ne aveva accompagnato il destino per secoli e che Marx aveva già individuato come frutto del "capriccio teologico" della merce. Come aveva detto Benjamin, con enorme capacità previsionale, "il feticismo, che è alla base del sex-appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale. Il culto della merce lo mette al suo servizio" (Walter Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo; in Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962, pag 146).

Ogni singolo oggetto di questo sistema cosale "quasivivo" è un punto di flusso, un ganglio di correnti relazionali, che collegano costantemente e simultaneamente spazi e dimensioni diverse, attraversando pareti, schermi, mura, diventati setti trasparenti di quell’immane palazzo di cristallo che custodisce l’eternamente cangiante esposizione universale delle merci.
Tutto ciò che vi è racchiuso, in questa mirabile serra grande come l’intero pianeta, è contronatura. O, per meglio dire, appartiene ormai interamente alla tecnica e quindi alla nuova natura dell’inorganico, che, non possedendo nulla di intimo né di sublime, unifica e fonde insieme intérieur ed extérieur. Nessuna variazione di clima, di temperatura, di pressione. Le pelli, i corpi, gli arti appartengono ad una nuova sensorialità neutra, indifferente. Il corpo stesso è ormai un corpo tecnologico.
Ogni cosa, ormai completamente trasparente, si espone allo sguardo della tecnica, che unifica e fonde insieme intérieur e extérieur. Lo spettatore contemporaneo si muove in questo spazio senza sentire più alcun disagio: il nostro sistema nervoso si è collegato infatti a quello stesso dell’informazione. Neuroni e circuiti. Passaggio nelle nostre fibre della tecnica.
È essa, la macchina, che s’avvale d’una sempre più inquietante sensibilità di tipo organico, a tentare di conoscerci. Il processo di colonizzazione inversa è cominciato.