La messa in abisso è qui rintracciabile nella mano del fanciullo che si appresta a precipitare tra noi, nella nostra realtà, non prima di aver benedetto il Bambino. Nelle due versioni del dipinto il Sacro è collocato tra il bordo dell'abisso e le rocce dello sfondo, serrantesi a foggia di fauci quasi antropomorfe che suggeriscono una "divorazione cannibalica del Sacro". Fondamentale è osservare lo sfumato dello sfondo, compenetrazione di nebbia e acqua che attraverso l'invenzione leonardesca della lontananza si dissolvono nell'azzurro, colore della distanza infinita e di tutto ciò che è celato all'orizzonte umano. In un suo manoscritto l'autore, dimostrandosi quasi positivista per la sua epoca, parla di una natura artificiosa, un meraviglioso e misterioso meccanismo rimembrando i contrapposti sentimenti da lui provati sulla soglia di una caverna; dinanzi a questa espressione della natura, teso tra la "paura" per l'oscura spelonca e il "desiderio" di conoscerne i misteri, avverte quello che ben dopo il Rinascimento neoplatonico fiorentino verrà riconosciuto come sublime.