Michael Jackson
Statua
Dato il contesto, ci occuperemo in maniera sintetica, del corpo quasi esclusivamente come "comunicante espressivo" nell’arte. Il corpo assume nella storia dell’arte moderna e contemporanea un’importanza fondamentale. Se l’autoritratto aveva caratterizzato la cultura rinascimentale e post rinascimentale, l’autoesposizione dell’artista, da Duchamp in poi, segna l’arte dell’avanguardia e della postavanguardia.
Il corpo come comunicante visivo: sia nudo sia vestito, l’intero sistema dei segni di cui esso si fa portatore comunica informazioni culturali sia dirette sia indirette. Ogni segno rivela il soggetto e il mondo specifico (talvolta detto "ambiente") a cui appartiene.
Ogni più piccolo atteggiamento, e persino la stessa conformazione fisica generale, così come l’insieme dei dettagli dell’abbellimento e gli oggetti di cui si adorna o che utilizza per qualche funzione, sono indiziari: posture, comportamenti, portamenti, gesti, lapsus, atteggiamenti, manie, vesti, ornamenti, strumenti e, soprattutto, linguaggio e lingua … (vedi codici).
Ma anche tutte le dimensioni e pratiche estetiche, che lo individuano e lo circondano, dalla moda all’abitazione, dal tipo di veicolo al tipo di strumento elettronico, dal maquillage al trucco, dal tatuaggio al piercing, dalla scarificazione agli innesti.
Il corpo, come si dice, nasce vestito! Per essere messo a nudo dall’arte!
Anche gli organi interni, infatti, sono stati promossi a potenziali opere d’arte grazie al film di Cronenberg The Dead Ringers, in cui si afferma, da parte di uno dei due protagonisti ginecologi, che si dovrebbe pensare di fare delle mostre artistiche utilizzando come sculture di pezzi anatomici prelevati dall’interno dei corpi.
E Stelarc, l’artista di cui trattiamo più specificatamente nel testo sul cyborg, in una sua performance, inghiotte una scultura, che assomiglia ad un piccolo robot di allunaggio, all’interno del suo corpo, filmandone la collocazione adeguata tra le pieghe del suo stomaco. Primo essere umano a farsi non contenuto, ma contenitore di un’opera d’arte.
Un poco di storia dell’arte, dunque, per raccordare i corpi dalle loro rappresentazioni alle loro replicazioni, passando attraverso la loro recitazione autoritrattistica! Vale a dire: dalla storia del ritratto pittorico e scultoreo (si veda l’insuperabile Enrico Castelnuovo, Il significato del ritratto pittorico nella società, in Storia d’Italia, Einaudi, Documenti, V, Torino 1973, 1031-1094) all’esposizione diretta del corpo come opera d’arte (Happening, Performance e Body art) alla vera e propria ri-creazione di un nuovo corpo (Orlan, Antunez, Stelarc). Noi ci occuperemo, in modo particolare, di quest’ultimi aspetti.
Happening, Performance e Body art sono state le poetiche e le manifestazioni storiche più importanti dell’esposizione moderna del corpo. É assolutamente importante distinguere le te categorie, dal momento che il termine performance è molto legato al teatro, il termine happening ha relazioni strette con l’astrattismo astratto e l’azione (la pièce) - testimoniata, per esempio da Vito Acconci o Chris Burden - tenderebbe a slegarsi da qualsiasi rapporto con le gallerie.
Una delle manifestazioni dell’arte contemporanea più difficili da catalogare e da definire è quella che passa sotto la denominazione di Performance, una denominazione basata su una parola, in italiano traducibile con "spettacolo", che cerca di sintetizzare i vari modi con cui, dagli anni Sessanta in avanti, l’artista si è sostituito alla sua opera, incarnandosi in essa ed esponendo il proprio corpo. Il termine "performance", dunque, va inteso in un’accezione più ampia rispetto al suo significato letterale di "azione teatrale": si tratta di un evento artistico vissuto in prima persona e non recitato, molto simile a ciò che avviene durante un Happening o a ciò che viene esibito nelle azioni della Body Art.
Tra queste manifestazioni possiamo individuare delle differenze di fondo: l’Happening è soprattutto un’azione rituale, nella quale gli spettatori vengono coinvolti in maniera più o meno diretta, e molto spesso in maniera divertente; la Body Art insiste soprattutto e quasi esclusivamente sull’esibizione da parte dell’artista del proprio corpo, sottoposto ad alterazioni, a travestimenti e a prove talvolta dolorose; la Performance presuppone spesso la presenza o la compresenza di musica, di danza, di poesia, di teatro, di media.
Caratteri peculiari della Performance sono la durata temporale dell’evento, l’attenzione per la tipologia e la qualità dello spazio ambientale, l’utilizzazione del corpo per una funzione controllata di movimenti e di azioni, con conseguente scatenamento di eventi complessi.
Gilbert & George, Singing Sculptures, 1969
Il corpo è considerato come una possibile scultura vivente: due artisti inglesi, Gilbert & George, sono famosi per l’appunto per una loro performance intitolata Singing Sculptures (1969), le "sculture che cantano", durante la quale essi si muovono lentamente sopra dei piedistalli, provocando un effetto di profondo straniamento.
Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia, 1972
Un’altra celebre performance (fu quella eseguita a Bologna, nel 1972, da Marina Abramovic e dal suo compagno di allora, Ulay. I due artisti, nudi, si erano collocati uno di fronte all’altro tra gli stipiti di una porta attraverso cui gli spettatori erano obbligati a passare. Il contatto con i loro corpi doveva determinare un’esperienza conturbante e imbarazzante, proprio per il fatto che finalmente l’artista appariva finalmente denudato di ogni sua veste elitaria e si dimostrava esattamente per quello che è, un essere in carne e ossa, come ognuno di noi.
Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia, 1972
Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia, 1972
Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia, 1972
Il termine di "performance" appare per la prima volta agli inizi degli anni Settanta in un articolo che descrive l’attività di Vito Acconci, un artista statunitense che esordisce al Museum of Modern Art di New York con l’operazione apparentemente banale di vivere nel museo per un certo periodo come se esso fosse stato casa sua.
Per circa un decennio gli artisti performativi cercarono di non farsi chiamare performers per non essere scambiati per attori teatrali; le loro esibizioni, per altro, diventavano sempre più individuali e provocatorie, al punto di mettere anche in gioco la propria salute, se non addirittura la vita. Il fine era quello di vivere realmente e, in prima persona, delle esperienze sempre più concettuali, da una parte, ma anche sempre più pericolose, dall’altra.
Chris Burden, Shoot, 1971
Uno dei protagonisti più discussi e più noti della versione più estrema, ma anche più concettuale, della performance è Chris Burden, le cui operazioni, come quella di farsi sparare un colpo di fucile (Shoot, 1971), di vivere come un naufrago in un’isola deserta (Messico, 1973), di sdraiarsi lungo la linea centrale di un’autostrada (Deadman, 1971), costituiscono delle prove, tutte registrate in film e in foto, sui limiti che il corpo umano può sopportare.
Nell’ambito di questa modalità artistica rientrano anche personaggi molto noti nel campo musicale, come, per esempio, David Byrne o Laurie Anderson, la quale inizia la sua attività artistica con Automotive, un "concerto per automobili" (1972) a Rochester, nel Vermont. Obiettivo della Anderson è, esplicitamente, quello di dare forma allo spazio della rappresentazione con la sua forte presenza, tanto più se accompagnata musicalmente da qualcuno degli strumenti elettronici da lei stessa progettati e suonati.
Hermann Nitsch, Wiener Aktionismus, Orgien und Mysterien Theater
Il cosiddetto Wiener Aktionismus costituì un’esperienza performativa tra le più violente e brutali degli anni Sessanta e Settanta. Il capostipite di questa tendenza, caratterizzata da azioni nelle quali venivano utilizzati, per esempio, animali macellati in una sorta di sanguinoso e ripugnante sacrificio rituale, fu Herman Nitsch, il cui obiettivo era quello di realizzare una nuova forma d’arte totale, l’Orgien und Mysterien Theater, da lui stesso coordinata e guidata, quasi egli fosse il sacerdote di qualche confraternita segreta.
Altri artisti del gruppo furono, tra gli altri, Rudolf Schwarzkogler, Gunter Brus e Otto Muehl. Il tema fondamentale di tutte queste azioni allucinanti, e talvolta assolutamente insopportabili per il pubblico, era quello di portare alla coscienza i lati più profondi e indicibili dell’inconscio mediante procedimenti di forte coinvolgimento emotivo.
La Body Art, che esordia contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti nel 1969, si caratterizza per una più decisa accentuazione della pura esibizione del corpo dell’artista, non necessariamente eseguita alla presenza di un pubblico, tant’è vero che molte di queste azioni sono state pensate appositamente per essere documentate fotograficamente, cinematograficamente o televisivamente. Le registrazioni fotografiche delle azioni costituiscono, quasi sempre, infatti, non solo dei validi documenti storici, ma anche delle opere in sé, che posseggono un loro specifico collezionismo, essendo presenti nei più importanti musei d’arte contemporanea.
Proprio quest’aspetto risultativo, tradotto e fissato in un’immagine, di un’azione dinamica e generalmente piuttosto complessa, rappresenta una certa contraddizione della Body Art e, in genere, di tutte le azioni che hanno come oggetto una libera manifestazione espressiva di un soggetto, in quanto viene meno il principio che sta alla base di tale comportamento: l’intento da parte dell’artista di andare oltre la mediazione di un’immagine e di una riproduzione, presentando, anzi vivendo, in prima persona il proprio corpo come opera.
L’antico progetto, presente in tutte le teorizzazioni delle Avanguardie storiche, di fondere insieme l’arte con la vita e, per dirla più specificatamente, di riuscire a cambiare la vita mediante l’arte, s’invera nell’esercizio esistenziale del body-artista. Ciò avviene, storicamente, nell’epoca in cui molte delle nuove avanguardie, quelle dell’Arte Povera e di Fluxus, per esempio, avevano già in gran parte spostato l’attenzione dall’oggetto al soggetto, dall’opera all’autore, dal risultato alla dinamica del fare: non rimaneva ad altri artisti, quali per l’appunto i body-artisti, che andare oltre e lavorare su se stessi, fino in fondo, assumendosi ogni rischio.
L’uso del corpo pareva, dunque, l’unica via per ritrovare una comunicazione diretta, un linguaggio senza parole, un rapporto sensoriale e tattile con altri soggetti e, in modo particolare, con gli spettatori.
Tra gli artisti della Body Art troviamo i nomi di Vito Acconci, Chris Burden, Marina Abramovic, Herman Nitsch, Gina Pane, Urs Luthi, Dennis Oppenheim, Vettor Pisani, Luigi Ontani, Giuseppe Penone, Cindy Sherman. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che difficilmente gli artisti, a qualsiasi movimento appartengano, rimangono ancorati ad un unico modo di fare arte; la loro molteplice attività è da intendersi, infatti, come la dimostrazione di una loro continua e inesuaribile ricerca.
L’indice degli artisti presenti nel libro di Lea Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, 2000
L’indice degli artisti presenti nel libro di Lea Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, 2000; a questi nomi, nell’ultimo capitolo, sono aggiunti quelli di Orlan, Antunez, Stelarc, Franco B, Marina Abramovic, Burden, Serrano, Aziz+Cucher, Jenny Holzer, Cindy Sherman, Shirin Neshat, Ron Athey, Matthew Barney, di molti dei quali ci siamo specificatamente e in più occasioni occupati.
Franco B ripreso durante una delle sue performance, durante la quale gli spettatori assistono al suo svenamento, controllato da un’équipe medica.
Tra le più note e, nello stesso tempo, più scandalose, irritanti o inquietanti azioni di Body Art, potremmo elencare i numerosi travestimenti di Urs Luthi, sia quando assume l’aspetto di note attrici televisive sia nelle fasi accelerate di un suo invecchiamento precoce; gli autoferimenti di Gina Pane; i tagli con dieci coltelli diversi che l’Abramovic infligge a se stessa; le interpretazioni di famosi ritratti della pittura classica di Vettor Pisani o, in tempi più recenti, dell’artista giapponese Morimura; l’autoritratto di Giuseppe Penone con lenti a contatto d’oro; l’uso fotograficamente ossessivo di se stessa, come unica modella continuamente mutevole, da parte di Cindy Sherman; il morsicarsi di Vito Acconci in tutte le parti del corpo raggiungibili con la bocca.
Un caso particolare riveste l’artista francese Orlan, la quale, mediante una serie di operazioni chirurgiche al volto, ha cercato, volta per volta, d’assomigliare a famose icone dell’arte, dalla Venere di Botticelli all’Aurora di Watteau e così via, fino a giungere all’attuale decisione di innestarsi sulla fronte due escrescenze sottocutanee, che fanno ricordare due piccole corna in gestazione, trasformando il suo aspetto in qualcosa di ancestrale e mitologico.
Ogni elemento aggiuntivo trasforma il corpo in altra cosa, ma qual è la sua condizione originaria, il suo aspetto reale, se è vero che sempre e comunque noi nasciamo vestiti, vale a dire entità culturali, nient’affatto naturali?
L’artista contemporaneo usa il proprio corpo come materia dell’opera e come opera tout court. Ma quest’opera è situata oggi nel giardino tragico di una mutazione irreversibile, che ha cambiato il territorio stesso dell’uomo. Con questo territorio mutato, in cui predomina la dimensione elettronica e i sistemi informatici, il corpo attuale deve fare i suoi conti.
Questa è, infatti, la caratteristica principale del corpo attuale: di possedere e di esplicitare in tutte le sue manifestazioni e nei suoi comportamenti la consapevolezza e i segni di un’avvenuta mutazione. Siamo più alti, più belli, più longevi, più resistenti, più intelligenti. Ma siamo anche sempre più incomunicanti, devalorizzati, disumani, "post-umani".
In ciascuno di noi sono reperibili ormai tutte le caratteristiche mutogene e mostruose già previste e descritte dall’arte. Noi siamo quel futuro che l’arte aveva preconizzato. Noi siamo ciò che il cinema aveva predetto. Noi siamo ciò che la scultura ha già rappresentato. Ma siamo un corpo che si ribella, anche se ancora per poco, a questa mutazione irreversibile.
La fondamentale esposizione Hors limites. L’art et la vie 1952-1994 (Centre Georges Pompidou, Parigi, novembre 1994-gennaio 1995), ha messo chiaramente in luce come il costituirsi di queste novità epocali possa essere fatto risalire ai primissimi anni cinquanta, ponendo soprattutto attenzione agli eventi teatrali, musicali e comportamentali, oltre che specificatamente artistico-figurativi, svoltisi negli States, in Europa e in Giappone.
Fondamentale, per una riscrittura meno convenzionale dell’arte contemporanea, l’azione di Jackson Pollock ripresa cinematograficamente da Hans Namuth, film che sarà presentato, con la musica di Morton Feldman, al Museum of Modern Art (MOMA) di New York, il 14 giugno 1951, film che contribuisce a trasformare il gesto dell’artista, di qualsiasi artista, in “azione pubblica”, come avrebbe acutamente scritto in un famoso articolo, The American Action Painters (1952), il critico Harold Rosenberg.
Alla metà del secolo scorso, infatti, lo spostamento dall’opera all’azione, all’happening e alla performance, rimette in gioco, collegandosi ad alcune esperienze futuriste e dadaiste, il predominio del tempo (e quindi dell’avventura, del rischio, ma anche della riflessione, nel senso metaforico dato dallo stadio del rispecchiamento narcisistico, tipico dell’attore) sulla categoria dello spazio, coincidendo con l’entrata in scena dell’artista in prima persona: il corpo umano si sostituisce alle sue rappresentazioni.
Alla metà del secolo scorso, infatti, lo spostamento dall’opera all’azione, all’happening e alla performance, rimette in gioco, collegandosi ad alcune esperienze futuriste e dadaiste, il predominio del tempo (e quindi dell’avventura, del rischio, ma anche della riflessione, nel senso metaforico dato dallo stadio del rispecchiamento narcisistico, tipico dell’attore) sulla categoria dello spazio, coincidendo con l’entrata in scena dell’artista in prima persona: il corpo umano si sostituisce alle sue rappresentazioni.
Oggi, questa scultura umana si è, per così dire, ulteriormente evoluta, complessizzandosi. Il corpo è divenuto, anche inconsapevolmente, un corpo tecnologico (si veda, a cura di Pier Luigi Capucci, Il corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994), contenente saggi fondamentali di Virilio, Antinucci, Capucci, de Kerckhove, Stelarc, Maldonado, Moravec, Pryor, Parisi, Varela), condannato a convivere con macchine, presenti non solo al di fuori del suo corpo, ma anche al suo interno, tra gli organi e come nuovi organi sostitutivi. Qual è, a questo punto la vera identità dell’individuo?
Il grande sogno dell’uomo, quello di cercare di rendere animata la materia inanimata, si trasforma oggi nella ricerca di mettere in movimento proprio l’inorganico e di renderlo sempre più simile all’organico. Ultima alchimia, dunque, quella di tentare la trasformazione dell’inorganico in una cosa viva. In maniera tale che le macchine, "macchine" interne (innesti) e "macchine" esterne (protesi), che oggi circondano di funzioni suppletive l’uomo, ne diventino gradualmente parte integrante e imprescindibile. Ambedue "vive" a pari titolo, fino a divenire un’unica forma ibrida e chimerica. Queste diverse inorganicità, fintanto che esse ancora apparterranno alla sfera materiale e prima, dunque, di essere definitivamente soppiantate da programmi neuronali addizionali, tenderanno a confondersi sempre più con l’organico umano e, in genere, animale.
Marc Quinn, Self, 1991
Marc Quinn, Self, 1991
Una delle più inquietanti sculture del nostro tempo è forse quella realizzata da Marc Quinn (Self) con il proprio sangue. Un’opera insieme tradizionale e rivoluzionaria. Si tratta di un busto, realizzato con sangue congelato e conservato in una teca opportunamente refrigerata. Liberato dalla "matrice", il calco dell’artista risulta della stessa natura dell’artista stesso. Prima opera in cui forma e contenuto, significante e significato, sono resi coincidenti ed inscindibili dalla materia vivente di cui essi sono composti. Forse come non mai la rappresentazione plastica della figura umana ha raggiunto oggi la sua massima efficacia. La centralità data all’aspetto esteriore e materiale dell’uomo nella nostra epoca ha segnato inesorabilmente il suo aspetto, celando nella gigantesca opera di maquillage prodotta dall’epoca della colla, dell’age-de-la-colle, i tratti "umani" del corpo.
Molte mostre dell’ultimo decennio del secolo, come Post-human, Hors Limites, Metropolis, Oltre la scultura, Sensation, Apocalypse, MIRarti nello spazio, segnalano uno spostamento di fatto di un intero sistema formale, estetico e comunicativo in una dimensione che, in un prossimo futuro, vedrà mutare anche lo stesso scenario urbano, la cui architettura, fino ad oggi concepita e progettata in una prospettiva di pace, potrebbe doversi rimodellare in funzione antiterroristica, antiatomica e antivirologica (un’angoscia che già attanaglia molte capitali, oltre, naturalmente, New York).
La drammaticità più estrema della Plastik contemporanea, rappresentata, per esempio, dalle macchine disintegrate nei crash di Ballard o compresse nelle morse meccaniche di César, perde tuttavia la sua dirompenza e la sua funzione ammonitrice di fronte al plastico delle bombe fatte esplodere nel cuore delle metropoli. L’arte cede di fronte all’estetica dell’orrore. Un plastico e non una plastica, una bomba e non un’arte, sta cominciando a rimodellare il mondo, dimostrando come l’utopia rivoluzionaria delle avanguardie sia irreversibilmente condannata ad un puro esercizio stilistico.
Le città, cristalli di quarzo, perfette trasparenze del male, si blindano, innalzando scultoree cortine di difesa e implodendo la forza deflagratrice dell’esplosione “bladerunneriana” della civiltà in una sempre più diffusa e planetaria anestesia del corpo sociale (Mike Davies, Agonia di Los Angeles (1994), Datanews, Roma 1994; in particolare la parte seconda, Oltre Blade Runner: il controllo urbano. Si veda inoltre, dello stesso autore, La città di quarzo. Indagine sul futuro a Los Angeles (1993), Manifesto Libri 1993).
La famosa affermazione di Duchamp, "L’arte è una condizione eraclitea di continuo mutamento" ("Marcel Duchamp; conversazione con Dore Ashton", in Studio International n.878, London june 1966; ora in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, Riga 5, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 44-48) trova perfetta corrispondenza negli eventi artistici più recenti, travolti da un flusso sempre più accelerato di innovazioni e dall’irruzione sulla scena estetica di altri elementi di valutazione. La questione dell’arte non è, infatti, più così centrale rispetto all’entità complessiva della rivoluzione culturale del nostro tempo, determinata dalla diffusione sempre più capillare delle tecnologie, dall’orientamento post-etico della ricerca scientifica e dal nuovo sistema di rapporto interumano, un sistema basato fondamentalmente su interfacce elettroniche; a tutti questi fenomeni, si aggiunga quello, assolutamente determinante, del sopravvento di un’estetica della tecnologia e delle merci (Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 1995) e dal prorompere di un vero e proprio sex appeal dell’inorganico, provocato dall’alleanza tra i sensi e le cose: le cose sembrano cominciare a possedere dei sensi e noi stessi cominciamo a sentirci come una cosa che sente.
Durante una delle più inquietanti performances di Laurie Anderson, un robot antropomorfo attraversa la scena; il suo procedere è incerto, ma inesorabile; ha il capo rivolto indietro, come l’angelo del noto disegno di Paul Klee, tanto caro a Benjamin. Come l’angelo, il robot, pur non vedendo nulla (il nulla...) davanti a sé, implacabilmente avanza.
Dedicata a Walter Benjamin, la performance della Anderson, The Dream Before (Laurie Anderson, Stories from the Nerve Bible, Harper Perennial, New York, 1994; idem, Storie e canzoni, 1982 - 1995, Arcana, Milano 1995, pp. 150-151), denuncia le rovine della storia ("la storia è un angelo soffiato nel futuro a ritroso"), che inutilmente l’angelo cerca, tornando indietro nel tempo, di correggere; una tempesta soffia dal paradiso, sospingendo l’angelo, che guarda alle sue spalle, nel futuro ("e questa tempesta, questa tempesta, si chiama progresso").
Walter Benjamin, The Dream Before, 1994
L’angelo evocato da Laurie Anderson sparisce per sempre, uscendo di scena, lasciando gli uomini soli, nell’orrore del quotidiano, in questo "tempo distruttivo", preconizzato da Benjamin (Walter Benjamin, Il carattere distruttivo. L’orrore del quotidiano. Millepiani n 4, 1995. I testi benjaminiani sono presi da Franco Rella, Critica e storia. Materiali su Benjamin, Cluva, Venezia 1980), che pur tuttavia apre brecce, adombra vie d’uscita, impone strategie di sopravvivenza per non essere sommersi inesorabilmente dalle macerie.
Il pensiero benjaminiano della crisi chiude un suo ciclo, approdando al pessimismo baudrillardiano, dopo aver congiunto Edgar Allan Poe e Julius Verne (Parigi nel xx secolo, 1863; Newton Comton, Roma 1995) a Ballard, Pynchon, Vonnegut, Burroughs, Gibson... attraverso il Baudelaire critico metropolitano (Il pittore della vita moderna, 1863; in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981).
C’è possibilità di riscatto? Un’opera recente di Laurie vuole indicarcela in maniera drammatica.
Laurie Anderson a cura di Germano Celant, Dal vivo, Fondazione Prada, 1998
L’opera, realizzata per la Fondazione Prada di Milano nel 1998, intitolata Dal vivo (a cura di Germano Celant), consiste in un’installazione interattiva, grazie alla quale, sulla superficie frontale di una sagoma in gesso, viene proiettata, in tempo reale, l’immagine "viva" di un ergastolano rinchiuso a San Vittore, che si è prestato a diventare un corpo prestato all’arte: ma, in effetti, è l’arte che ha imprestato a Santino Stefanini, questo il nome del prigioniero, la sua energia mentale per liberarlo, anche se momentaneamente e in forma di simulazione elettronica.
Nel buio completo della sala, la scultura organico-inorganica, materiale-immateriale, prigioniera-liberata, appare ai nostri occhi come la personificazione più terribile e commovente della potenza dell’arte: un’opera che testimonia la possibilità di rendere visibile l’invisibile. Ora, Santino Stefanini, è immortale.
È l’arte, in effetti, diventando "tecnica", ad oltrepassare l’apparenza esteriore del corpo per indagarne, forse alla ricerca dell’elemento comune a noi tutti, la sua quintessenza.
Il mutamento “tecnologico” dell’uomo, espresso puntualmente dal cinema cyber (come non poter citare, almeno, films inesorabili, come Tetsuo 1, o Tetsuo 2, di Shinjia Tsukamoto (1989) oe l’intera produzione cronenberghiana?), consiste nella sua metamorfosi in un corpo derealizzato, videodromico, le cui membra sono sostituite da espansioni elettroniche, e il cui cervello è a sua volta inglobato in quello artificiale della macchina. Nel cyber-spazio si attua finalmente quel regno dell’uomo dalle radici tagliate, quell’uomo moltiplicato, che si mescola al ferro e all’elettricità e che si identifica con il motore, di cui Marinetti parlava nel suo Manifesto futurista del 1910.
Gary Hill, Inasmuch as it is always already taking place, 1990
Una nota installazione, di cui ci siamo già occupati (vedi di Gary Hill, Inasmuch as it is always already taking place (”Ciò sta già avvenendo”, 1990; lo stesso titolo è esemplare: non possiamo opporre alcuna resistenza alla mutazione in atto! Video installazione presentata alla mostra Metropolis, Berlino, 1991) può aiutarci a comprendere meglio il senso di questa drammatica disintegrazione del corpo umano, incapace ormai di ritrovare un’identità originaria; si tratta di un loculo, dentro a cui sono situati numerosi monitors, di varia misura, ognuno dei quali trasmettente l’immagine di una porzione singolare di un corpo umano. In quest’opera si condensa tutta la logica post-moderna del frammento, parola che rimanda a due termini chiave, che si inseguono, frattura e frazione. Interruzione del continuum, del definito, del definitivo, del definibile, ma anche ricostruzione possibile di un nuovo discorso (barthesiano) per indizi.
Ma l’opera di Hill che certamente è tra le più significative dell’arte di questo decennio è Tall Ships (Documenta IX, Kassel, 1992 e Whitney Biennial, 1993), un lungo e oscuro spazio longitudinale, sulle cui pareti laterali, con il procedere del visitatore, appaiono, quasi fantasmi, delle figure umane, che si avvicinano fino ad assumere una grandezza naturale, per poi volgersi e ritornare indietro, donde sono venute: contatti di quarto tipo, quindi,contatti tra dimensioni opposte della realtà, ma ambedue ugualmente, ontologicamente, vere.
Gary Hill, Wall Piece, 1951
Il lavoro presentato da Hill all’ultima Biennale di Venezia è un’installazione sonora, Wall Piece: un uomo cerca disperatamente di saltare oltre una parete nera, di abbatterla o, forse, più semplicemente, di sbatterci contro, pur sapendo dell’inanità del gesto. L’interpretazione è comunque abbastanza immediata: sbattiamo sempre contro un muro, una barriera, un confine, un limite. Senza luce, senza futuro, senza felicità.
L’arte attuale ha a che fare con la molecola, l’atomo e il bit; con i frattali, le olografie e i laser, ha a che fare con la pelle e la carne, con l’urlo dell’io e la rotondità colorata del nuovo designle nuove cose, ha a che fare con il microscopico e lo spazio siderale, con l’architettura del DNA e il DNA dell’architettura, definizione la quale forse dovrà tener conto che le nuove avanguardie e i nuovi istmi artistici potessero essere ancora individuati, essi andranno identificati solo all’interno degli istmi, ovvero di canali di collegamento e di flusso tra, attraverso cui saperi diversi, che sempre più si scambiano oggi le loro conoscenze e le loro innovazioni.
Ma, per meglio apprezzare la corrente, che in ambo i sensi circola per questi nuovi istmi, che rizomaticamente collegano diversi saperi e diverse forme di creatività espressione e comunicazione, dobbiamo tener anche presente su quale panorama si disegnano le reti di questo complesso momento culturale: un panorama, nel quale non è più possibile distinguere il centro dalla periferia, l’autentico dall’inautentico, il naturale dall’artificiale, il vero dal verosimile, l’originale dalla copia, la realtà dalla simulazione; un panorama privo di rappresentazioni e di riproduzioni, ma disseminato di simulazioni e di replicazioni.
Un panorama abitato da nuove "corpi" (cloni, ibridi, mostri genetici...), da nuove merci (l’informazione, innanzitutto, la quale non solo manipola e frutta denaro, ma è denaro), da nuovi materiali (a memoria di forma, per esempio, o i piezoelettrici), da nuove dimensioni (come quella aperta dalle macchine virtuali), da nuove scienze (nel senso che le scienze attuali costituiscono un’unica attività intellettuale con la fantascienza), da nuove tecnologie (caratterizzate da un bassissimo consumo, quasi si trattasse di operare con dei ready mades e da un alto grado di inseità).
Stelarc documenta esattamente questa coscienza epocale, innestandola all’interno di una rivoluzionaria concezione di un nuovo rapporto tra corpo, tecnologia e informazione. Nella nostra fase biologica decadente
- afferma Stelarc- indulgiamo nell’informazione come se ciò compensasse la nostra inadeguatezza genetica. L’informazione è la protesi che sostiene il corpo obsoleto
.
Filosofia, scienza e tecnologia, sommandosi insieme, permettono l’inveramento del nuovo immaginario: la fiction si realizza a partire dal riconoscimento ontologico di una realtà immateriale (della realtà dell’immateriale) e di un’esistenzialità digitale. Per questo motivo, come sostiene Stelarc, il solo corpo biologico è insufficiente a rappresentare la complessità della sua mutazione epocale: insufficiente a seguire l’uomo nel suo viaggio artificiale.
É questo uno dei punti di più difficile accettazione da parte di alcuni studiosi, tra cui Paul Virilio, il quale giunge a definire lo stesso Stelarc una vittima consenziente di una cultura che s'appresterebbe a colonizzare un pianeta molto accessibile: quello di un corpo senz’anima, di un corpo totalmente profano (Paul Virilio, L’art du moteur, Galilée, Paris, 1993; tr. it. Lo schermo e l’oblio, Anabasi, Milano, 1994).
Stelarc, The Third Hand
Ma di fronte a ciò che viene chiamato, senza mezzi termini, il delirio sintomatico di Stelarc, lo stesso Virilio non può non convenire sul fatto che l’evoluzione naturale dell’uomo è stata già sovvertita dalla biogenetica e dall’intervento della medicina e della chirurgia, di quella chirurgia che prevede, per altro, di dedicare nell’anno 2000 la metà dei suoi interventi a trapianti e a installazione di protesi, e che Minsky indica come l’unica via per poter inserire, entro breve tempo, nel cervello neuronale sistemi e memorie addizionali di natura digitale, aprendo il futuro ad una sorta di meta-design delle neuroscienze.
Strategie alternative sono per Stelarc quelle che appartengono alla spettacolarità già di per sè insita nella scienza, da quando essa ha sopperito all’irreversibile perdita del proprio l’impegno etico con una sempre più raffinata esteticità autopromozionalereferenziale. Una sorta di interzona culturale, dominata dalla tecnologia, è venuta costituendosi nell’incontro tra diverse forme di creatività e di comunicazione, mettendo in discussione interi sistemi categoriali di riferimento e, ponendo in primo piano
Spetta ad un’emergente ricerca critica passare attraverso la scienza globale del pensiero per approdare al territorio ancora in gran parte sconosciuto delle attuali forme della creatività e della comunicazione, e porsi lla questione di una più pertinente definizione della scienza e dell’arte.
Non si può non fare riferimento all’artista che, più d’ogni altro, ha dedicato la sua vita alla ricerca di un estremismo corporeo: la francese Orlan sulla quale il regista Cronenberg sta girando un film.
Non possiamo più parlare di Body art, nel senso storico che possiede tale denominazione, anche nel caso di Orlan.
Le azioni di Orlan tendono, infatti, ad accentuare la componente dinamica della comunicazione, una comunicazione che è sentita sempre più come parte centrale dell’evento artistico; proprio per ciò, l’artista utilizza non solo la materialità espressiva del corpo fisico, ma tutto ciò che appartiene alla sua possibile dicibilità, trasmettendo via Internet le sue "terribili" operazioni chirurgiche, mediante cui, per nove volte, ha sottoposto il suo corpo e, in modo particolare, il suo volto a tutta una serie di trasformazioni "estetiche" (vedi estetica).
Cos’è il viso? Uno schermo bianco. La testa appartiene al corpo, come le mani, le gambe, il tronco; il viso è una superficie significante collettiva, un prodotto nell’umanità. Il viso appartiene allo sguardo. Come direbbero Deleuze e Guattari, il viso è una carta, anche se si applica su un volume o si avvolge intorno ad esso, anche se circonda ed orla cavità che ormai esistono solo come buchi
(Gilles Deleuze e Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi? Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Sez II, Castelvecchi, pag. 37). Il viso, infatti, si produce solo quando lo astraiamo dal corpo e dalla stessa testa e ne cogliamo il codice, vale a dire la sua supersignificazione. Il suo appartenere ad un codice generale extracorporeo. Il viso è un’interfaccia tra colui che è visto e il nostro apparato semantico: uno strumento che permette la connessione simbolica. Il viso rende l’intera testa e poi l’intero corpo comprensibili.
La bocca e il naso, e innanzitutto gli occhi, non divengono una superficie bucata senza coinvolgere tutti gli altri volumi e tutte le altre cavità del corpo. Operazione degna del Dottor Moreau: orribile e splendida. La mano, il seno, il ventre, il pene e la vagina, la coscia, la gamba e il piede saranno viseificati
. Tutto dipende dal viso che si ha. Al punto che, proprio per questo motivo, l’uomo cerca di sfuggire a questo destino, falsificando il proprio viso. Viso-spia. Un paesaggio! Questa la ragione del velo islamico: la donna è tutta nella sua viseità, come documenta dolorosamente nelle sue opere l’artista iraniana Shirin Neshat. Neppure gli occhi sanno esprimere quanto il viso (gli occhi, come le mani o i piedi o il naso o le orecchie non sono altro che frammenti di un corpo). Nel viso si rappresenta l’incarnato con l’utilizzazione pittorica e cromatica del colore pelle, il colore più difficile che esista, il colore che decide il naturalismo del tono dall’artificio del timbro, il rinascimento veneto dal manierismo toscano.
Le diverse immagini fisiognomiche di Orlan, costruite su modelli desunti da celebri opere d’arte del passato, costituiscono una galleria evolutiva di autoritratti, concepiti e realizzati come viseificazioni all’interno di una logica provocatoria, che ha come obiettivo quello di colpire i luoghi comuni della cultura cattolica e occidentale in quanto essa ha di più sacro e inviolabile: l’integrità del corpo umano, e soprattutto del suo volto, inteso come specchio dell’anima e, per ciò, specchio della stessa immagine divina.
Ma quella stessa cultura, che denuncia le pratiche chirurgiche di Orlan, usufruisce di ogni espediente, anche chirurgico, per perseguire il proprio modello ideale di bellezza, una bellezza artificiale, realizzata mediante protesi, innesti, interventi, alterazioni della funzionalità degli organi, ingestione di farmaci e attività ginnico-muscolari. Il viso è sottoposto a plastiche zigomatiche, la pelle è trattata con tossine botuliniche, che inibiscono l’attività dei muscoli di espressione e riduce le rughe, oppure con interventi di resurfacing laser, gli occhi e la fronte sono sottoposti a lifting endoscopico, il naso è corretto mediante la rinoplastica, le labbra sono riempite di materiali biologici e sintetici, il seno è corretto mediante mastoplastica riduttiva o additiva.
Avviene pertanto un incontro esplosivo tra la violenza perpetrata sul corpo umano dalla pervasività della tecnologia e la predisposizione dell’artista a farsi complice di tale tortura; come il protagonista della Colonia penale, che aiuta il suo carnefice, o come la Medea di Lars von Trier, che, già sul rogo, si china a raccogliere la corda per restituirla con un sorriso proveniente dagli abissi della psiche al suo boia, il performer contemporaneo non manifesta alcuna ribellione alla pena a cui sta andando incontro.
Dunque, ecco la ragione della trasformazione della sala operatoria, in cui avviene l’intervento - in anestesia locale - di chirurgia estetica, in un set teatrale, nel quale Orlan e altre comparse recitano passi letterari e filosofici, intrecciando i fili di un discorso amoroso, che cucie attorno all’operazione chirurgica una sutura simbolica di parole poetiche. Nel mentre, medici e infermieri, precipitati nel gorgo temporale di questo evento, che fonde insieme due estetiche, quella chirurgica con quella artistica, si piegano sopra il corpo doppiamente esposto, doppiamente offerto all’esperimento dell’arte e a quello della scienza medica. Operazione attorno all’operazione: l’una anestetizza l’altra. L’una, poiché fa perdere la coscienza del dolore fisico attraverso il potere taumaturgico dell’arte e della poesia, l’altra in quanto chirurgicamente anestetizza e neutralizza il desiderio di bellezza, che perseguita incessantemente l’uomo.
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