Diego Velazquez, Las Meninas (La famiglia di Filippo IV o Le damigelle d’onore), 1656, Museo del Prado, Madrid
Questa famosissima opera paradigmatica di Velázquez è una sfinge di interpretazione su cui si è cimentato anche Michael Foucault nel saggio Le parole e le cose (Le mots et les choses, 1966). La prima questione da porsi riguardo a questo indecifrabile dipinto riguardo la sua stessa identificazione, perché tutta la superficie della tela può essere considerata come il riflesso della specchio in cui tutti i personaggi ritratti si stanno guardando. Si reifica dunque la stessa dinamica relativa al l'opera di Giulio Paolini Giovane che guarda Lorenzo Lotto: noi osservatori ci troviamo di fronte al dipinto e siamo nel luogo dello specchio. Ma sapendo che il pittore, qui ritratto mentre dipinge afferrando il pennello con la mano destra, non fosse mancino come facciamo a parlare di una immagine invertita? Di cosa si tratta allora se non può essere considerato uno specchio? E se non è un riflesso chi sarà mai il pittore che ritrae il personaggi e lo stesso Velázquez colto mentre a sua volta ritrae? Il mistero si infittisce.
Sullo sfondo vediamo quattro spazi enigmatici: uno, oscuro, dietro la figura dell'autore; uno immediatamente a destra riconoscibile come una cornice nera con due ritratti all'interno; poi una porta semiaperta attraverso cui si scorge un ciambellano (a noi ben noto) e infine la superficie superiore occupata dai due grandi quadri.
All'interno della cornice identifichiamo i volto dei monarchi, tanto sbiecati e sdefiniti nell'ombra da poterci far supporre che si tratti di uno specchio e che dunque re e regina si trovassero al nostro posto di fronte agli altri personaggi. E cosa starà dipingendo Velázquez su quella altissima tela davanti alla quale egli si trova? Il quadro di cui vediamo il retro è anche collocato nella posizione del tragico ovvero secondo la diagonale tagliente che anima il confronto tra la pace ortogonale di Mondrian e l'inclinazione di Van Doesburg alla quale fa capo l'inconciliabilità tra linea orizzontale terrena e linea verticale che si connette con la sfera spirituale.
La collocazione sullo sfondo dei due grandi quadri potrebbe aiutarci nella comprensione dell'opera, ma innanzitutto dobbiamo dire che si tratta di due copie realizzate da Martínez del Mazo di due dipinti che sappiamo (attraverso documenti testamentari) si trovassero proprio in quella stanza in cui sono rappresentati, ovvero l'atelier di Velázquez. Gli originali erano pitture di Rubens, Atena e Aracne, e di Jordaens, Apollo e Marsia, riprodotti sotto forma di copie per dichiarare l'illusorietà del mondo (e anche del dipinto stesso) che però necessita di una risoluzione chiarificatrice per mettere fine a questo "jeu massacre". I due quadri citati hanno infatti significati precisi in relazione all'opera del nostro artista, il primo attraverso il mito di Aracne ci ricorda di essere nuovamente caduti nella rete tessuta per imposizione divina dall'artista, il secondo, riferito al mito di Marsia sottolinea metaforicamente la necessità di privare la pittura della sua apparenza esteriore pacificante per conoscerne il corpo sanguinante: la verità dell'arte è difficile ma gratificante.
B.
Michel Foucault, Le parole e le cose, 1966
Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, 2005