Rappresentazione

Naturalmente, anche "rappresentazione" è a sua volta un rizoma. Il primo nodo del suo rizoma è "arte". Ed esso rimanda immediatamente a tutti i modi, a tutte le tecniche, a tutti gli stili della rappresentazione: da quelli analogici a quelli digitali. Ma "rappresentazione" implica anche nozioni e concetti come quelli di interpretazione, comunicazione, messaggio, segno...
Un rizoma possibile dovrebbe contenere, quanto meno, oltre ai succitati, i seguenti "nodi" di riferimento e di relazione:

E ancora: come non considerare, come nodo fondamentale del rizoma, spettacolo ("rappresentazione teatrale", "rappresentazione cinematografica")? E lo spettacolo, non include e presuppone forse la presenza dei media, e, di conseguenza della politica, dell'ideoogia, dell'informazione? Come non ricordare, inoltre, il profondo valore simbolico della rappresentazione... sacra?
Il lemma Rappresentazione nella mai abbastanza lodata Enciclopedia Einaudi (1980, vol 11, pagg. 547-583) può venirci in parte in soccorso.
Fernando Gil, che ne è l'estensore, ci ricorda subito che alle rappresentazioni si legano molti problemi, in quanto la rappresentazione si rivela una denominazione complessiva dai contorni sfumati, poiché le discipline o i sistemi di pensiero che la possono analizzare e descrivere mutano evolutivamente con l'evoluzione stessa delle tecniche e delle filosofie rappresentazionali.
Una definizione del concetto di rappresentazione, che ne dà l'autore, potrebbe esserci di grande aiuto, se non fosse che, nell'epoca attuale, infinitamente lontana dall'epoca della redazione di quel contributo, essa va, come cercheremo di fare, ridiscussa a fronte delle nuove tecnologie (ri)produttive dell'immagine: In ogni forma di rappresentazione qualche cosa si trova al posto di un'altra: rappresentare significa esser l'altro di un altro, che viene evocato e cancellato dalla rappresentazione (pag. 547).

Vediamo, dunque, di aprire l'analisi in funzione del nostro contesto, che è la "comunicazione visiva".
In un mondo tutto tecnico, in un mondo divenuto tutto artificiale, le vecchie categorie, che Walter Benjamin inscriveva nella decadenza del valore cultuale in favore del valore espositivo (la fotografia, l'architettura e la moda, e la loro sintesi, che è il cinema), si sono completamente trasformate.
Il processo evolutivo della tecnica contempla il superamento di quanto realizzato dallo stesso cinema, offrendo la possibilità di rappresentare il tempo dell'esperienza: la televisione e ancor più il computer riescono a far coesistere, in una percezione unitaria, il tempo della rappresentazione e quello della vita, vale a dire, la simulazione e la realtà!
È il tempo, nella sua accezione attuale, postmoderna, a bruciare la differenza tra rappresentazione e rappresentato! La distanza tra la vita del protagonista del film e quella dell'attore, ma anche quella dello spettatore, si è consumata nel cortocircuito, di cui altrove diamo conto (vedi media), tra cinema, vita, televisione, comportamento, pubblicità.

Colui, infatti, che si serve del cinema per riprendere il reale non si può più comportare come un pittore, che vede il mondo secondo una "prospettiva della distanza", vale a dire mediante un atto rappresentativo, ma deve precipitare in esso (Kubrick, Lynch...), imitando l'azione del chirurgo, il quale non può limitarsi ad apporre le mani sul corpo malato, come farebbe il medico, ma deve inserirle profondamente in esso, sporcandosi del suo sangue. Per questo motivo le tecniche di rappresentazione non sono che rappresentazioni della tecnica.

La tecnica, come abbiamo detto, si (auto)rappresenta, mettendosi in luce attraverso tutto ciò che l'uomo e la macchina creano e producono: il mondo così realizzato è la sua rappresentazione, come diceva Heidegger. Due giorni prima del suo ottantesimo compleanno Martin Heidegger, il 24 settembre 1969, accetta, cosa assolutamente rara, di lasciarsi intervistare dalla televisione tedesca. Nel corso dell'intervista, condotta da Richard Wisser, Heidegger apre una questione attualissima, commentando l'undicesima Tesi di Feuerbach, di Marx: I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo; ma si tratta di cambiarlo.
Secondo Heidegger questa tesi contiene una difficoltà tragica e che potremmo riassumere in questi termini: una trasformazione del mondo non può essere slegata da un mutamento radicale della "rappresentazione" del mondo e una rappresentazione non può darsi se non dopo essere riusciti ad interpretare correttamente il mondo stesso.
La trasformazione del mondo è, per Heidegger, di cui riportiamo di seguito le parole, causata dalla tecnica, quella tecnica che, in maniera ancor più pericolosa dell'invenzione della bomba atomica, ha fatto sì che, grazie allo sviluppo della biofisica, in un prossimo futuro, saremo in grado di "fare" l'uomo, cioè di costruirlo nel suo puro essere organico così come se n'avrà bisogno: la tecnica procede senza più il soccorso di un pensiero fondativo, interpretativo e rappresentativo prodotto dalla scienza in quanto la moderna scienza naturale è fondata sullo sviluppo dell'essenza della tecnica moderna e non viceversa. L'uomo attuale risulta perennemente es-posto, vale a dire posto fuori di sé, con un'identità completamente trasferita nella sua immagine.

L'avventura post-moderna è tutta risolta nel mondo dell'immagine! Viviamo in una cultura che è soprattutto una cultura riproduttiva, e la riproduzione è, in fondo, la testimonianza non della fine della creatività, ma dell'attuarsi di un altro tipo di espressività. Proliferazione di segni, come cancro necessario, e comunque pericolosamente mortale. La tesi benjaminiana, intorno alla fine dell'originale auratico ed irripetibile dell'opera d'arte, a causa della sua riproducibilità tecnica, è ormai largamente superata, almeno nel senso che oggi assistiamo alla coesistenza e alla "interpenetrazione" di molteplici pratiche artistiche producenti "unicità"- e dunque ancora singolarmente dotate di auraticità benjaminiana - con quelle riproduttive.
Anzi, è proprio questa tecnica di montaggio ad aver mutato la concezione estetica stessa dell'arte: tanto più è, oggi, originale un'opera d'arte, quanto più essa si presenta come rappresentazione della rappresentazione, come immagine dell'immagine!
Le immagini non rimandano più al mondo, bensì ad altre immagini. Ciò significa, forse, che le immagini non possono essere più considerate come segni dal punto di vista semiotico?

La questione è particolarmente importante, perché mette in relazione la questione dell'immagine come simbolo e come segno. Se, forse, non possiamo più dire che le immagini costituiscono un simbolo (vale a dire un meccanismo concettuale che collega un elemento fisico con un elemento ideale), è tuttavia fondamentale non perdere di vista le possibilità offerte dalla semiotica per aiutarci a comprendere che, oggi più che mai, è necessario considerare le immagini anche dal punto di vista semantico ed interpretativo.
Dentro questa lettura post-moderna dell'immagine, la posizione baudrillardiana, come già abbiamo detto, si spinge a negare la stessa sopravvivenza dell'arte a causa dell'eccesso già prodotto dalle immagini: usciamo dalla rappresentazione per eccesso di immagini. L'immaginazione è morta per overdose di immagini. L'estetizzazione del mondo è totale. L'arte ha bisogno di banalizzarsi, di suicidarsi, sostiene Baudrillard, per produrre una nuova aura: ma l'aura della simulazione e dell'artificio, non più dell'originale e dell'unico.
La rappresentazione è la rappresentazione è la rappresentazione: pura simulazione che si avvita su se stessa.
Con questo titolo, Éloge de la simulation, Philipe Quéau intende sottolineare, nel suo libro l'aspetto positivo delle tecnologie elettroniche connesse con la produzione di immagini di sintesi, ma è fuor di dubbio che l'elogio è anche rivolto a tutta la dimensione, vorrei dire, "culturale" delle pratiche simulative. Ciò che possiamo ritenere fondamentale dell'analisi fatta dallo studioso francese è l'intuizione, che a me pare di aver colto, che la simulazione possa essere considerata come un modello simbolico, vale a dire alla stessa stregua con cui consideriamo la prospettiva nei riguardi del rinascimento. Non vi è una dichiarazione esplicita in tal senso, ma le conclusioni portano inequivocabilmente a questa interessante interpretazione.

Ma vediamo intanto, prima di tutto, come Quéau affronta la questione pregiudiziale dell'immagine. L'immagine è "trace, symbole scriptural, signe combinable, schéma abréviateur, carte panoptique. Elle permet de simplifier, de miniaturiser, de rassembler, de rapprocher. Elle soulage la mémoire et favorise physiquement la métaphore visuelle et le déplacement par contiguité (métonymie). Elle facilite la navigation mentale.[1]
Questa definizione, benchè eccessivamente corsiva, delle funzioni cognitive dell'immagine, permette il porsi della domanda: cosa può offrire in più, rispetto a tali caratteristiche, l'immagine di sintesi? Quéau svolgerà per gran parte del suo libro la tesi della definitiva superiorità delle immagini prodotte al calcolatore (notare come cambia completamente significato il pensiero, se diciamo: prodotte dal calcolatore, anche se, in sostanza, si tratta dello stesso fenomeno!).
L'immagine di sintesi, o numerica, è una vera e propria "coupure" epistemologica nell'evoluzione dei mezzi di rappresentazione. Una rottura, provocata dalla natura completamente diversa di questa immagine rispetto a qualsiasi altra, persino rispetto a quelle immagini prodotte mediante tecniche fotochimiche e video-elettroniche. Ambedue, sia pure con le enormi differenze che le distinguono, operano mediante l'utilizzazione di fotoni della luce che "colpiscono" l'occhio, le prime per mezzo di sistemi ottici, meccanici e di modificazioni di superfici fotosensibili, le seconde per mezzo di movimenti di elettroni all'interno dei tubi delle camere televisive. Le tecniche di sintesi numerica, invece, non hanno più nulla a che fare con la vista abituale, in quanto tecniche "immateriali", effetti visivi di strutture logico-matematiche, trasposizioni nella dimensione visibile dell'invisibilità del linguaggio del calcolo matematico.

Dice Virilio: Per il computer l'immagine elettro-ottica è semplicemente una serie di impulsi codificati, di cui non possiamo immaginare la configurazione in quanto, precisamente, nell'"automazione della percezione" il ritorno-immagine non è più assicurato.[2] Velocità della luce o luce della velocità? si chiede Virilio.
In uno dei passaggi più interessanti del suo La macchina che vede, Virilio indica una terza forma di energia, l'energia osservata: l'energia cinematica, energia-in-immagine, la fusione dell'ottica ondulatoria e della cinematica relativistica, che potrebbe prendere posto accanto alle due forme ufficialmente riconosciute, l'energia potenziale (in potenza) e l'energia cinetica (in atto), dove l'energia in immagini illumina il senso di un termine scientifico controverso, quello di energia osservata. Energia osservata o energia dell'osservazione?[3]

Per la prima volta, nella storia delle immagini, si è realizzata una coincidenza perfetta tra linguaggio e immagine: l'immagine nel calcolatore non è altro che una "tavola di cifre", di numeri. Aritmographia, come la definisce Quéau, scrittura, immagine, rappresentazione, per mezzo di numeri. La teoria rinascimentale che affermava che tutto il visibile può essere ricondotto al disegno, disegno che può realizzarsi solo nel rispetto preciso delle regole codificate della prospettiva geometrica, sembra trovare il suo compimento ideale nella dimensione informatica.
Non è questione, tuttavia, che la realtà abbia trovato finalmente un sistema di rappresentazione scientifico. Non è questo l'obiettivo del nuovo sistema linguistico, di "rappresentare" scientificamente la realtà, anzi è quello di costruire altre realtà parallele, altre realtà preorganizzate, prive di incidenti casuali e di disturbi. Astratta e immateriale, ma, non di meno, esperibile. La realtà prodotta dal computer è una realtà interamente prevista, ante-posta alla realtà fisica.
L'immagine computerizzata non rappresenta più nulla, modellizza. Realizza sempre e solo "modelli", o, per meglio dire, simulazioni, di ciò che noi chiamiamo la realtà, la natura, l'oggetto: ma le immagini aventi questi contenuti sono strutturalmente identiche a quelle che si presentano come testo di scrittura, o di simbolo grafico, al di sopra o al di sotto dell'icona. Rivoluzionaria constatazione: le indicazioni dei codici di campo, del righello, della struttura dell'impaginazione, e così via, sono realizzate con lo stesso procedimento che permette di far apparire sullo stesso monitor le immagini di un volto o di un paesaggio. Tutto ciò che vediamo, non è altro che un'illusione visiva. La visione è effetto di una visualizzazione. Fantasma.
L'immagine simulativa, o di sintesi, acquista un ruolo sempre più determinante non solo nel mondo scientifico e tecnologico, ma anche dentro l'evoluzione generale dei sistemi di pensiero. Qui sta l'enorme e dirompente novità dell'immagine computerizzata. Nuova immagine, a tutti gli effetti. Ciò che vediamo in questa immagine è in realtà "pura informazione", priva di qualsiasi rumore, di qualsiasi disturbo: comunicazione che coincide con l'informazione! Produzione di modelli, abbiamo detto. Ma, proprio in quanto "modelli", questi sono raramente definitivi. Pertanto non sono né veri né falsi. Sono una funzione. Declino della verità critica, avevamo detto in anticipo. Divisione, dunque, dei compiti, tra l'uomo e la macchina ordinatrice?
La simulazione, come atto di produzione di modelli, niente altro è che una "sintesi del reale": immagine di sintesi, ma anche riduzione del reale ad una sintesi estrema, ogni dato percepibile della realtà tradotto in un punto, in non più di un punto, volta per volta: o 0 o 1, infatti!
Una sintesi talmente accelerata da aver permesso di elaborare e di archiviare un numero impensabile di informazioni all'interno delle macchine di calcolo, tanto che non è più possibile concepire le attività umane, da quelle più semplici, come lo scrivere, a quelle più complesse, come il fare ricerca scientifica, senza l'uso del calcolatore. La memoria personale detiene oggi un ruolo molto marginale, legato soprattutto a funzioni poetiche, poiché la grande funzione di ricordare e di richiamare alla memoria è ormai totalmente delegata al computer. Credo che il domani si configuri come contrapposizione forte tra memoria informatizzata e memoria naturale, che il singolo individuo dovrà saper riutilizzare mediante pratiche di recupero di una cultura orale e soggettiva.

L'enorme archivio di immagini e di parole, che si contiene nell'insieme generale dei calcolatori di tutto il mondo, è pronto per essere collegato e fornire una struttura autoconformata di saperi consultabili e messi in funzione: l'occasione è solo politica. Ciò costituisce un altro gigantesco elemento di riflessione. Non più la cultura, né tanto meno quella umanistica, e neppure quella scientifica in senso stretto, decide sulla conoscenza e sui fini della conoscenza, ma una ragione strategica, più politica e forse militare (un militare che alle armi da fuoco sostituisce quelle elettroniche).
La conoscenza odierna si attua attraverso la simulazione. Gioco di parole, che nasconde una doppia verità. E, soprattutto, che ci permette di togliere dall'uso del termine gli ultimi connotati negativi, residuo di una concezione reazionaria e conservatrice di una cultura falsamente umanistica. Non è a caso, che le maggiori resistenze attuali al mondo dell'elettronica vengano dai settori più tradizionalmente conservatori dell'arte. Simulazione, deve essere intesa nel senso di inganno, di sostituzione, ma anche di doppio, di simultaneo, di compresente. Un esempio metaforico di questa nuova avventura del sapere può essere rappresentato dall'acquario elettronico, un programma informatico realizzato dall'équipe di Alan Key per la Apple.
Si tratta di un programma molto complesso, che si presenta come un gioco. Un certo numero di "pesci", il cui comportamento "naturale", come l'accoppiamento, il deposito delle uova, la fuga, il pasto, l'aggressione, e così via, è stato individualmente programmato, si vengono a trovare all'interno dello stesso habitat, lo schermo del monitor, dove avvengono dei fatti relazionali assolutamente imprevedibili, tanto più se, come capita, qualcuno elimina qualche pesce o ne modifica il "carattere".
I programmatori, che non hanno modellizzato le interattività possibili tra i vari pesci elettronici, possono così studiare, a partire da questa poderosa simulazione, quella che potremmo considerare come l'ecologia della simulazione!

Come dice Pierre Lévy, nel suo interessante lavoro sulle Tecnologie dell'intelligenza, la simulazione, che si può qualificare come immaginazione assistita tramite calcolatore, è dunque senza dubbio uno strumento di aiuto al ragionamento molto più potente della vecchia logica formale, che si fondava sull'alfabeto.[4]
La teoria, quindi, di fronte alla formalizzazione così sofisticata dei programmi di simulazione, appare come un'utopia di verità, assolutamente perdente rispetto alla vincente efficenza del procedimento simulativo, il quale, a sua volta, dimostra tutta la sua efficacia solo se considerato in un'ottica relativistica.
In altre parole, il modello, il programma di simulazione, è, a tutti gli effetti, un "modello", non il fantasma della realtà, non una realtà simulata, ma una simulazione di realtà. Come abbiamo più volte detto, una realtà parallela. Proprio il fatto che il modello sia relativo, ci permette di considerarlo come evolutivo, come incessantemente perfezionabile!

La conoscenza tramite simulazione, meno assoluta della conoscenza teorica, più operativa, più legata alle circostanze particolari del suo uso, si lega anche al ritmo sociotecnico specifico delle reti informatizzate: il tempo reale.[5]

ll grande processo rivoluzionario attuato dall'informatica non è solo interno alle logiche di programma e alle enormi possibilità intrinseche di calcolo, di elaborazione e di modellizzazione che il singolo calcolatore può compiere, con tutte le conseguenze d'ordine pratico e teorico che ciò comporta, e di cui qua e là abbiamo parlato (si ricordi la questione della possibilità di inventare creature inesistenti, per esempio), quanto e soprattutto per le reti informatiche planetarie, che ci permettono di accedere, senza spostarci fisicamente, a tutte le banche dati necessarie, e non solo per interrogarle, ma anche per interagire con i loro programmi (un discorso "politico" e culturale sul fenomeno degli hackers qui s'imporrebbe).
Il tempo reale diventa quello, unico, della simultaneità di questi collegamenti planetari. Questo tempo reale indica forse che la storia, nel senso che ad essa per millenni abbiamo dato, è terminata, ma ciò non significa né che il tempo si è fermato, né che non vi sia più evoluzione. Come abbiamo detto sin dall'inizio, al contrario ciò significa che viviamo in un'epoca della mutazione, vale a dire in uno stato di continuo accelerato mutamento delle condizioni di ricerca, di esperienza e di produzione del sapere.


[1]Éloge de la simulation. De la vie des langages à la synthèse des images, Champ Vallon, 1986, p. 31.

[2]Paul Virilio, La machine de vision, Galée, Paris 1988; tr. it.: La macchina che vede. L'automazione della percezione, Sugarco, Milano 1989, p. 151.

[3]ib.

[4]Pierre Lévy, Le tecnologie dell'intelligenza (Paris 1990), A/traverso, Milano-Bologna 1992, p. 136.

[5]ib., p. 138.