La precedente lezione ci ha lasciato da risolvere la spinosa questione: fotografia come abbellimento (maquillage) o come taglio, ovvero come gesto implacabile che ci riporta alla realtà? A noi la scelta.
Come mostratoci dai surrealisti questa realtà, però, si dà anche nell'ambito del sogno: la dimensione onirica permette di comprendere il proprio sé mediante un arduo ma illuminante percorso d'analisi o autoanalisi (Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni, 1899-1900). La metafora dell'occhio tagliato, divenuta simbolo del film di Buñuel e Dalí precedentemente visto, ci colloca all'interno di un'altra grande metafora, quella della cecità che, nei confronti dell'esterno, corrisponde a un approfondimento interiore. Il "rovesciamento del proprio occhio" ci permette di negare il mondo come immagine e scoprire che esso precede la sua rappresentazione; è perciò necessario vivere / conoscere il mondo senza l'intermediazione dello schermo che lo rende proiezione. Questa prospettiva Tao Zen richiede la perdita della propria fisicità al fine di conoscere / comprendere sé stessi. Ma chi è capace di fare ciò?
Affrontiamo ora la bibliografia selezionata per la lezione.
Al di là di quanto detto sull'immagine, siamo ora obbligati ad affermare la nostra dipendenza da essa. Leggendo la trattazione di Georges Didi-Huberman che si sviluppa a partire dalla considerazione delle immagini di Auschwitz, comprendiamo come il documento e in particolare il documento dell'orrore sia necessario: non dobbiamo poter fare a meno della fotografia come potentissima attestazione di realtà. L'immagine dell'inferno fa parte della verità di Auschwitz, "sapere e far sapere è un modo di restare umani" (…).
Sulla stessa linea, anche se a livello più semiotico, si colloca Rosalind Krauss identificando la fotografia al terzo tipo di segno rispetto alla suddivisione pierciana: l'impronta. Ecco che le immagini fotografiche come le impronte digitali in quanto traccia reificata ed esteriorizzata dei loro deferenti, sono considerabili come documenti con valore di prova. Non a caso la polizia lavora sui due tipi di traccia citati e per di più la schedatura si concretizza sempre attraverso due scatti indivisibili, il ritratto di fronte, biologico, e quello di profilo, geografico (si potrebbe aprire una lezione sulla differenza tra i due: il primo è mutevole, il secondo immortale). Ogni ritratto è comunque poliziesco ovvero identificativo e spionistico, enorme responsabilità del fotografo è far scomparire questa traccia di ritratto nel suo scatto eliminando così la celata volontà di dominio e autorità sull'altro e sul mondo.
Il valore poliziesco del ritratto si estremizza nella sua versione di fotografia di corpo nudo che assume sempre status di schedatura sessuale e pornografica. Ogni fotografo è voyeur se non si costruisce un alibi giustificativo come quello di Paolo Gioli che delega al foro stenopeico il "mirare", il guardare del buco della serratura. Il predominio dell'occhio sullo sguardo messo in atto dalla pulsione scopica fa sua la dimensione della superficie tralasciando quella della profondità. Nei riguardi del soggetto di ogni sua opera l'autore (pittore o fotografo) nutre volontà di predominio mediante esercizio di autorità senza peraltro volerne essere coinvolto. "Alla fine ciò che tutti sognano è l'uso sessuale illimitato del corpo ovvero della natura" (Jean Baudrillard, Patafisica e arte del vedere).
Siamo dunque chiamati a muoverci sul bordo discrezionale tra fotografia come arma pericolosissima e fotografia come necessità impellente.
B.
Augusto Pieroni, Fototensioni. Arte ed estetica nelle ricerche fotografiche di inizio millennio, Castelvecchi, 2000
George Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina editore, 2005
Jean Baudrillard, Patafisica e arte del vedere, Giunti, 2006
Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Monadori Editore, 1996
Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, 1973