La relazione chiamata in causa dal titolo-tema "O quadri o inquadri" si delinea come metafora del nostro rapporto non solo con l'oggetto dell'inquadratura ma anche con l'Altro da me ( Slavoj Žižek), concepibile come componente d’un tutto di cui avere una visione rizomatica diffusiva. Se il dramma della fotografia è l'esclusione di tutto il "resto", l'obiettivo dell'invenzione artistica sarà allora quello di riammettere con un gesto simbolico nel "poco" contenuto all'interno della cornice, il "tanto" collocato al di fuori della rappresentazione, il luogo dell'assenza e del fantastico. L'osservatore sarà chiamato a servirsi del limite per viaggiare oltre ai confini dell'immagine, mettendo così in luce il chiasmo tra occhio e sguardo. Il primo viene ingabbiato dai bordi taglienti e occlusivi, il secondo si anima al di là di essi, dietro alla rappresentazione.
Sulla stessa dicotomia si muove nell'immediato dopoguerra Lucio Fontana, il quale riconoscendo la morte dell'immagine decide di neutralizzare il valore storico (fin da Leon Battista Alberti) del quadro come finestra sul mondo rovesciando la crudeltà del taglio sulla crudeltà del bordo della tela (la rappresentazione) aprendo per la prima volta dietro a essa il nulla concettuale e il vuoto fisico, quindi la verità, con un'azione ironico-ludica e drammatico-filosofica.
Contemporaneamente un altro artista italiano si misura sullo stesso tema adottando una prospettiva antitetica: Alberto Burri cuce insieme sacchi di iuta americani facendone quadri di frammenti composti secondo un raffinato ritmo musicale quasi "matematico".
Il greve informale di Burri e il "cool jazz" di Fontana devono essere letti congiuntamente come superamento dei limiti spaziali (vedi: spazialismo) della rappresentazione, e quindi, dell'inquadratura.